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Addio ‘O pa’, il leggendario mendicante di Napoli amato dagli studenti universitari

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A volte basta il titolo o una foto di un giornale e la macchina del tempo ingrana improvvisamente la retromarcia.

Napoli, via Mezzocannone, poco meno o poco più di quarant’anni fa. Esterno giorno di un giorno qualsiasi purché durante l’anno accademico.

Fiumi di ragazze e ragazzi assiepati davanti al numero civico 8 o al 16 o all’entrata laterale della Federico II, assembramenti per comprare di prima mattina la pizza a libretto o davanti ad una copisteria a “pezzottare” un tomo da 1500 pagine che ci voleva un mutuo per comprarlo fior di conio.

Casino inevitabile davanti alla mensa a ora di pranzo dove si intrufolavano in tanti: in corso, fuori corso e di Corso Umberto e prima della lezione delle tre un po’ di relax al cinema di cui si è perso anche il nome della memoria, la cui programmazione andava da “Giovannona Coscialunga” a “Liquirizia” a “Quel gran pezzo dell’Ubalda” con quel che ne seguiva nel titolo con le splendide Edwige e Barbara.

Un altro capannello a maledire le antenate del barone di turno che in una intera sessione d’esami si era degnato (bontà sua) di programmare un solo appello dove saresti stato in piacevole compagnia di un paio di centinaia, se non di più, di sventurati che sul tomo di cui sopra si erano giocati un bel po’ di diottrie.

Per non parlare delle tue compagne di sventura accademica che il giorno prima ti avevano regalato una visione celestiale delle loro minigonne e il giorno dopo sfilavano con pantaloni di tre taglie sopra e maglioni al ginocchio, disegnando con le dita una sorta di rombo che aveva ben altro significato, mentre dichiaravano e gridavano che quella cosa rappresentata a gesti era solo loro e che se la sarebbero gestita come volevano.

Insomma un caravanserraglio che oggi genera nostalgie in chi scrive, soprattutto se (ci scusi il lettore se abbiamo divagato) leggi su Il Mattino on line che se n’è andato in sordina, a differenza di come era vissuto, un vecchio mendicante, sordomuto – o almeno così lo si riteneva-  a quell’epoca quando aveva tutti i capelli nerissimi e sgattaiolava da un istituto universitario all’altro chiedendo la carità, anzi come diceva lui “’o pa…’o pa”, un pezzo di pane.

Si può dire che era un tuo compagno di studi da quando eri matricola fino alla seduta di laurea.

Sempre lì, un moto perpetuo, con un sorriso furbo che ti gratificava quando, forse come gesto apotropaico gli regalavi qualche spicciolo un minuto prima degli esami.

Formidabili quegli anni avrebbe detto Capanna, formidabili anche se – correva l’anno 1977-  tra occupazioni, scontri fra diverse fazioni, manganellate e sprangate, il rettifilo ogni tanto diventava campo di battaglia.

Ma erano anni belli lo stesso, perché profumavano di giovinezza e cornetti caldi di Van Bol, di inchiostro di ciclostile e palle di riso mangiate a volo con il sottofondo del traffico e della cantilena che oggi ti sembra melodia, eseguita da un giovane mendicante che ti chiedeva solo, col suo sorriso furbo, un tozzo di pane.

redazione
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