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Amalfi, chef Crescenzo Scotti si racconta: «Il successo in cucina? Fare squadra»

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Per il 2024 ha ricevuto la sua seconda Stella Michelin, la prima da quando dirige il ristorante “Alici” del “Borgo Sant’Andrea”, hotel cinque stelle lusso di Amalfi. Crescenzo Scotti, executive chef della scuola ischitana, si è raccontato ad Enzo Alfieri.

Parlaci della tua infanzia. Eri un buongustaio? Trascorrevi molto tempo in cucina? Come è nata in te l’idea di intraprendere questa strada lavorativa?

Posso definire la mia infanzia come ricca di esperienze semplici e autentiche, di ricordi indelebili e di giochi inventati. Non ero affatto un buongustaio, anzi, facevo disperare mia madre perché non volevo mai mangiare! Lei mi ha insegnato a non sprecare il cibo e, soprattutto, mi ha trasmesso la cultura del “mangiare sano”, con passate di pomodoro, marmellate, e tutto a km zero. Da mio padre, un costruttore edile, ho ereditato la passione per il disegno, prima ancora di provare a cucinare. Lo seguivo sui cantieri e ammiravo con estasi la costruzione delle case e i progetti che disegnava tra numeri e calcoli. Lui era il mio “idolo”. Ieri come oggi, il mio grazie va ai miei genitori, che mi hanno trasmesso il senso dell’umiltà e del sacrificio.

Se devo essere sincero, inizialmente non volevo diventare cuoco, ma muratore, rilevando la ditta di mio padre. Mi piaceva vederlo ancora oggi quando fa qualche lavoro a casa nostra. Fu proprio mio padre, però, a spingermi verso questa carriera. Ricordo ancora le sue parole: “Devi fare il cuoco, la cucina è il futuro!” Ed io ho esaudito il suo desiderio, mettendo in questa arte tutto quello che avrei sicuramente dato se fossi diventato muratore. Oggi la cucina è la mia vita… “La mia Storia Infinita”.

Dall’idea iniziale per una ricetta all’impiattamento, qual è secondo te la parte più creativa del processo di uno chef? Qual è la principale fonte di ispirazione per i tuoi piatti?

Tutto ciò che si fa con passione e amore porta inevitabilmente a creare, legandosi a ricordi che ispirano le nostre creazioni. La parte più importante, per me, nella realizzazione di un piatto è il disegno. Attraverso il disegno, do forma ai pensieri e alle idee che poi si traducono nel piatto, una testimonianza di come le idee possano essere racchiuse in una mano. L’ispirazione per i miei piatti nasce dal concetto di “ricordo”. Il mio obiettivo è trasmettere, attraverso le mie creazioni, i ricordi d’infanzia, gli odori e i profumi del territorio, visti con gli occhi di un bambino. Una cucina essenziale, focalizzata sulla ricerca e sull’utilizzo di pochi ingredienti per ogni piatto.

Da quando hai ottenuto la stella, come sei riuscito a gestire la pressione del successo?

La vita è un alternarsi di successi e insuccessi, di fortuna e sfortuna, di cadute e rialzi. Nulla nella vita è certo, l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Il segreto sta nel puntare sempre in alto, nel rischiare, nel cercare di raggiungere l’obiettivo. Questo dà alla vita un sapore diverso. Non dirò mai che “chi non risica non rosica”, ma dico sempre che “chi non pensa di avere successo, mai lo otterrà!”

Considerando il grande impegno che metti nelle tue creazioni, che reazioni ti aspetti dagli ospiti nel tuo ristorante?

Partiamo da un presupposto: mille chef hanno mille modi diversi di cucinare lo stesso piatto. Per quanto mi riguarda, ciò che cerco di trasmettere attraverso i miei piatti è la mia storia, ciò che mi ha portato oggi ad essere un “bravo chef”. Ma mi preme fare una piccola postilla: non basta essere un bravo chef. Ogni piatto che preparo si basa su un percorso lavorativo, su esperienze vissute, che ho il piacere di rielaborare in chiave moderna. La reazione che mi aspetto? Che dopo aver condiviso un pranzo o una cena con me, gli ospiti possano leggere nei loro occhi la felicità di aver vissuto un’esperienza magnifica, pari alle bellezze naturali.

Quanto è importante per un cliente vedere il piatto prima di mangiarlo, e perché è fondamentale per voi prepararlo con tanta cura?

Il famoso detto “anche l’occhio vuole la sua parte” è molto conosciuto. Si inizia a mangiare prima con gli occhi e l’olfatto. Un piatto ben presentato e profumato ci predispongono positivamente alla degustazione. È come se il piatto stesso ci sorridesse, ci strizzasse l’occhio! Il lavoro del cuoco oggi è logorante, sotto tutti i punti di vista: ore di lavoro, prove su prove per cercare di raggiungere un equilibrio perfetto. Un buon piatto si raggiunge quando si conosce bene la materia e si è consapevoli delle proprie capacità. Un piatto equilibrato è quello in cui le sensazioni gustative, visive e olfattive sono bilanciate, senza eccessi. Prepararlo con cura è fondamentale per rispettare chi ci ha dato fiducia, affidandoci la cucina di un ristorante o di un hotel come il “Borgo Sant’Andrea”. È un segno di rispetto anche per il nostro team, per il personale di sala, per chi collabora con noi all’esterno, per l’intera esperienza. Il rispetto è l’ingrediente base di tutto.

C’è un piatto in particolare che ha un valore nostalgico o un significato speciale per te? Puoi dirci perché?

Non ho un piatto in particolare che considero speciale o che mi provochi nostalgia. Ogni piatto che mi ha emozionato nel tempo, che mi ha accompagnato nel mio percorso da bambino a chef, è presente nei miei menù.

Come chef riconosciuto a livello internazionale, ti sarà capitato di confrontarti con altri professionisti del settore. Chi ti ha ispirato o qual è lo chef che ammiri di più?

Posso dire che ogni singola esperienza, ogni incontro e confronto con altri professionisti del settore mi ha arricchito professionalmente e culturalmente. Tuttavia, due esperienze in particolare hanno segnato il mio percorso lavorativo: la prima quando avevo 14 anni e fui scelto da un albergatore come apprendista per la sua azienda. All’inizio non fu facile, ma con il tempo ho capito l’importanza di quell’esperienza. La seconda esperienza è legata allo chef Massimiliano Alajmo, tre stelle Michelin, una vera icona mondiale della ristorazione. Un episodio che ricordo con affetto è quando, durante un servizio, sbagliammo un piatto iconico: il tortello alla rapa liquida. Il cliente si lamentò, e per noi ragazzi in cucina fu un vero dramma. Ma lo chef, dopo il servizio, ci chiamò tutti e, con due bottiglie di Champagne, ci spiegò che l’errore è umano, ma non doveva ripetersi. Quella sera, dopo aver brindato, andammo tutti insieme a bere birra in un pub. Il giorno dopo, ognuno di noi era stregato da quella magia umana di Massimiliano. Lui è lo chef che ammiro di più, per la sua umanità, una dote che lo contraddistingue.

Il tuo lavoro è piuttosto stressante e impegnativo. Come ti rilassi nel tempo libero (per favore non dirci che cucini)?

Il vero segreto è fare squadra, conquistare la stima e la fiducia dei ragazzi con cui lavoriamo, farli sentire unici e importanti. È questo il nostro punto di forza. La cucina è una passione che richiede sacrifici, abnegazione e rinunce, ma ci permette anche di esprimerci, di viaggiare e di fare nuove amicizie. Sono consapevole che un ambiente sereno è essenziale per un futuro sicuro. Un’altra parte del nostro relax? Andiamo in palestra di notte, dopo il servizio! Una cucina fatta di persone, dove non manca mai il sorriso.

Ti piace cucinare per la famiglia o per gli amici, o preferisci ordinare una semplice pizza? I tuoi amici hanno il coraggio di invitarti a cena?

Mi viene da ridere, perché ogni volta che vado a cena da un amico, le mogli vanno in panico, anche se non c’è motivo! Per me la chef super del mondo è sempre mia madre, con la sua cucina tradizionale. Vi svelo un segreto: amo la pasta in bianco con un filo di olio e parmigiano. Se cucino a casa, cerco di essere semplice, ma se posso evitarlo, non mi dispiace!

Lei ha tanti giovani che lavorano sotto la sua guida e che hanno scelto di seguire la sua stessa strada. Cosa vorrebbe dire ai tanti giovani che si apprestano a immaginare il loro futuro e a costruirlo?

Ai giovani voglio dire di puntare sempre in alto, di rischiare e di provarci. Questo dà alla vita un sapore diverso. Non dirò mai che “chi non risica non rosica”, ma dico sempre che “chi non pensa di avere successo, mai lo otterrà!”. L’insegnamento che cerco di trasmettere ai ragazzi che lavorano con me è che non si vive di sola cucina. È bello condividere hobby, opinioni e altri aspetti della vita. È fondamentale formare un gruppo, arricchendosi a vicenda delle proprie esperienze, sempre con il sorriso. La frase che ripeto spesso è: “Io sono” è un’errata coniugazione verbale che non unisce. “Noi siamo” è la declinazione corretta per chi vuole scommettere e riuscire nell’impresa, che è di tutti e non del singolo.

redazione
http://www.quotidianocostiera.it
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