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Amalfi, nel 1946 la prima corsa di Sant’Andrea. Nacque da ribellione e disprezzo all’Autorità ecclesiastica

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di SIGISMONDO NASTRI

Amalfi, 27 giugno 1946. La sede vescovile, rimasta vacante dopo le dimissioni per anzianità dell’arcivescovo mons. Ercolano Marini, era stata affidata dal papa all’arcivescovo primate di Salerno mons. Demetrio Moscato in qualità di amministratore apostolico. Egli aveva vietato l’attraversamento della Marina Grande, dove per antica tradizione si svolgeva (si svolge ancora) un rito propiziatorio con tutte le imbarcazioni radunate davanti alla spiaggia. L’arenile era considerato luogo di scandalo per la presenza dei bagnanti.

La sera prima il presule aveva riconvocato le autorità locali, i rappresentanti della marineria, quelli del comitato dei festeggiamenti, per ribadire le sue disposizioni. In piazza Flavio Gioia sarebbe stato allestito un apposito podio e di lì, con la statua presente, dopo l’invocazione a sant’Andrea, sarebbero stati benedetti il mare, il naviglio, i marinai e i pescatori. Accordo fatto? Macché. Certo, il clima politico-sociale non era dei migliori. Si era in pieno dopoguerra: la lotta per il potere vedeva contrapposti i movimenti cattolici, rappresentati dalla Dc, e il blocco socialcomunista, allora la più forte propaggine dell’imperialismo sovietico nell’occidente europeo.

Il referendum istituzionale, svoltosi il 2 giugno, inoltre, aveva acuito le tensioni tra i sostenitori della repubblica, in particolare gli esponenti e i militanti dei partiti della sinistra, e il clero, accusato di essersi schierato a favore della monarchia sabauda.

Nel tardo pomeriggio del 27 la processione prese il via dalla cattedrale tra due ali di folla: le congreghe (San Biagio, l’Addolorata, Portosalvo) con i loro pittoreschi stendardi, l’azione cattolica (uomini, donne, ragazzi), la folta fila di seminaristi, le suore della Carità dell’Istituto Mariano Bianco, i frati, il capitolo metropolitano al completo, insieme con l’arcivescovo, la statua, le autorità con il gonfalone del Comune, la banda musicale, il popolo dei fedeli. Molti scalzi per voto. Di ritorno dal tondo Volpe (sotto l’albergo Riviera), all’altezza del Gran Caffè la testa del corteo tirò dritto, come s’era deciso. Ma i portatori della statua si volsero verso la spiaggia, seguiti dalle autorità civili e dai fedeli, che tra l’altro non s’erano nemmeno avveduti di quel che stava succedendo. Di fronte alla moltitudine di imbarcazioni radunatesi lì davanti, si procedette a un rito che avrebbe dovuto essere sacro, ma divenne laico e blasfemo. La statua fu sollevata il più possibile e girata da un lato e dall’altro, a mo’ di benedizione. La gente fece quello che aveva sempre fatto: pose dei sassolini sulla pedana e, dopo che erano stati… “benedetti”, li raccolse per conservarli come “reliquie”.

Arrivato in piazza, in un clima di eccitazione collettiva, accentuata dalle note della banda musicale, Sant’Andrea – sospinto da un nugolo di portatori – risalì di corsa la gradinata fino all’atrio, ma trovò la cattedrale chiusa. La situazione si trasformò subito in esplosiva. La prima cosa che si pensò di fare fu quella di sfondare le antiche porte di bronzo e mettere tutto a ferro e fuoco. Ruggiero Francese, ingegnere, esponente del Partito comunista locale e anticlericale agguerrito, dichiarò ironicamente che avrebbe indossato lui i paramenti vescovili per portare a termine le funzioni. Si trattò solo di una battuta, comunque irriverente e inopportuna. La ribellione stava arrivando a un punto di non ritorno.

Scese in campo, con l’autorevolezza che lo caratterizzava, il sindaco Francesco Amodio – aveva 32 anni – che avviò una delicata, paziente opera di mediazione facendo la spola tra i ribelli e i rappresentanti della Chiesa, rinserratisi in seminario. Un impegno difficile, perché se da un lato i rivoltosi erano esasperati e pronti al saccheggio, dall’altro mons. Moscato rimaneva fermo nella sua posizione di condanna sia riguardo alla disubbidienza che alla insubordinazione violenta. Solo a notte inoltrata, raggiunto un compromesso, sant’Andrea poté riprendere il suo posto sul trono accanto all’altare maggiore. Toccò a don Nicola Milo, ordinato prete da poco più di due settimane, confrontarsi con la folla e aprire le porte della cattedrale. Nessuno dei suoi confratelli se l’era sentita di assumersi una tale delicata incombenza.

L’indomani si scatenarono le ire dell’Amministratore apostolico. In un duro documento (cfr. Rivista Ecclesiastica Amalfitana, anno XXXI, n. 3, maggio-giugno 1946) mons. Demetrio Moscato parlò di “sovvertitori”, di “malsane correnti avverse alla Chiesa”, di “seminatori di zizzania, di elementi abituati a pescare nel torbido”, che avevano spinto il popolo “all’infrazione della disciplina, alla ribellione ed al disprezzo della Autorità ecclesiastica”.

redazione
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