di SALVATORE AMATO
Nel 1982, in un articolo apparso su «Miscellanea Francescana», il compianto P. Cristoforo Gennaro Bove, strappato troppo presto alla vita e agli studi, affrontava il complesso tema del ‘ricordo’ di S. Francesco nella Provincia minorita di Terra di Lavoro.
Su questa tematica, di fronte ad una ricerca storica ferma ai soli e scarni dati delle fonti, lo storico conventuale invitava ad uscire dal «recinto incantato del fatto documentato, per una più articolata e profonda comprensione di esso, poiché esiste – scriveva – una storia fatta di ricordi, viventi nella ricreazione o assimilazione popolare, leggibili, se non come dati storici, almeno come sintomi di significati, componibili stratigraficamente».
Questa premessa, laddove tradizione e documentazione non convergano, come nei casi di Amalfi e Ravello, induce necessariamente a tentare di individuare, ove sia possibile, il tempo e le cause della costruzione della memoria del presunto passaggio di San Francesco.
Di qui, a partire dal XVI secolo, si affacciano nelle fonti documentarie e nelle edizioni a stampa di opere storiche relative al territorio e all’Ordine religioso una serie di elementi, che sembrano risentire, in alcuni casi, anche del particolare momento storico vissuto dalle comunità conventuali.
Nel 1586, il teologo francescano Pietro Ridolfi, nel definire il percorso storico dell’ordine minorita e la sua distrettuazione sul territorio, a proposito del locus Amalfiae segnalava che esso, in un’epoca non precisata, sarebbe stato scelto dall’assisano mentre si recava alla tomba dell’Apostolo Andrea, per costruirvi uno spazio definito ‘camera’, che, alla fine del XVI secolo, era noto ancora con il nome di “camera Beati Francisci”.
Pochi decenni dopo, nel 1625, sarà il Wadding a collocare al 1222 la vicenda francescana di Amalfi, nel corso della quale il santo “obtinuit conventum”, in cui avrebbe edificato un “cubiculum”, riconosciuto in seguito con il suo nome.
Intanto, negli stessi anni, l’iscrizione lapidea tuttora conservata nell’ambiente sotterraneo della chiesa conventuale amalfitana, arricchiva ulteriormente gli elementi del ricordo del presunto passaggio del Serafico nella città della Costa, avvenuto nel 1220 in compagnia di Bernardo di Quintavalle e durato perfino due anni, nel corso dei quali, su richiesta dell’arcivescovo Giovanni Capuano e dei cittadini, avrebbe eretto “a fundamentis” il locus minorita, che volle intitolare a Santa Maria degli Angeli, invitando nuovi discepoli e piantando con le proprie mani alberi medicinali, i cui frutti avrebbero giovato non poco alla salute degli infermi.
Nella biografia del presule l’Ughelli, alla metà del Seicento, utilizzando una fonte orale (ut aiunt), segnalava che il Capuano avrebbe ospitato presso di sé il Santo, sostenendo economicamente l’iniziativa edilizia della realizzazione del complesso religioso.
All’aprirsi del XVIII secolo, gli elementi ormai codificati del ricordo del presunto passaggio dell’assisano sono presentati in forme diverse nell’Istoria del Pansa, tirata a Napoli nel 1724, in cui il medico atranese attribuiva a Francesco anche la canalizzazione a beneficio dell’orto conventuale dell’acqua proveniente dalla Valle del Dragone e la scelta di alcune famiglie nobili di edificare i loro sepolcri.
Allo stesso modo, le carte del manoscritto miscellaneo dell’Archivio Arcivescovile di Amalfi datato al XVIII secolo, edite dall’Imperato e dal D’Amato, riferiscono che la visita al corpo dell’Apostolo sarebbe avvenuta nel 1218, per poi proseguire con la sosta biennale e gli eventi già riferiti in precedenza.
La fonte sarebbe stata utilizzata in parte anche dall’Amodio, che riprende la data del 1218 quale anno dell’arrivo ad Amalfi, aggiungendo alle vicende già note il potere taumaturgico delle piante medicinali innestate, in particolare a beneficio di coloro che erano colpiti da febbri malariche. Il sacerdote amalfitano, che scriveva nel 1767, riferiva di aver appreso “tutta questa narrativa” in un manoscritto antico esemplato a sua volta da diversi manoscritti “anche antichi”.
A ritornare sulla vicenda, negli anni Ottanta del Settecento, è anche Gaetano Mansi, negli appunti lasciati manoscritti nel Monasticon Amalphitanum. Tra le carte del manoscritto è conservata una lettera del 28 agosto 1783 con cui l’arcidiacono amalfitano Francesco Maria Pansa gli trasmetteva il testo della lapide, già ricordata in precedenza, esposta allora nella “pariete della cappella di Santo Francesco d’Assisi”.
Il Mansi è anche il primo a fornire le testimonianze documentarie più antiche sul convento amalfitano, segnatamente a due legati del 1234 e del 1271, quest’ultimo destinato in “opera Sancti Francisci de Amalfia”, desunti dai cartulari dei monasteri di Santa Maria di Fontanella e di San Lorenzo.
Nel corso del XIX secolo, le vicende della presunta fondazione patriarcale del convento amalfitano sono riferite anche dal Camera, non solo nell’Istoria del 1836, ma anche in appendice al II volume delle Memorie storico-diplomatiche del 1881, in cui pubblica un monitorio del 6 novembre 1653 «col quale veniva raccomandato ad ogni persona di qualsivoglia stato, grado e condizione, se sapesse o avesse inteso dire da altri, in potere di chi stessero e si ritrovassero l’istrumento di fondazione del detto monistero, sottoscritto con la propria mano di S. Francesco d’Assisi».
Fin qui gli elementi del ricordo amalfitano, sui quali, proprio a partire dal 1653, si innestano le testimonianze ravellesi.
Il 2 febbraio di quello stesso anno, in esecuzione dei provvedimenti emanati da Innocenzo X con la bolla Instaurandae Regularis Disciplinae, il Vescovo della Diocesi di Ravello – Scala, Bernardino Panicola, essendo stato incaricato della soppressione del Convento di San Francesco, si recò presso la comunità religiosa, assistito dal Capitolo della Cattedrale, per gli opportuni provvedimenti canonici.
Il testo dell’atto notarile che documenta l’episodio, rogato da Marco Livio Battimelli, includeva la dichiarazione resa dal Guardiano, Vincenzo da San Severino, sulle vicende storiche dell’insediamento francescano ravellese, in cui si asseriva che il nome del fondatore e l’epoca dell’istituzione erano stati letti in un’antica iscrizione, cancellata e logorata dal tempo, ma una tradizione orale tramandata ai posteri ricordava che S. Francesco, constructo Amalphiae monasterio, giunse a Ravello, scegliendo la collina di Ponticeto per l’edificazione del convento nel quale, si aggiunge, avrebbe insegnato pubblicamente anche S. Bonaventura.
Il passaggio bonaventuriano, «che onorò quella cattedra con sua lettura», veniva segnalato dopo pochi decenni, nel 1708, anche nella supplica che il governo cittadino e la Chiesa locale presentarono alla Congregazione dei Vescovi e dei Regolari per la riapertura del Convento francescano. Nessuna menzione del passaggio di San Francesco, ad eccezione dell’accenno all’«ereditaria e fervente devozione verso il Patriarca assisiate».
La tradizione del magistero di S. Bonaventura era accreditata, nel 1724, anche dal Pansa, che aggiungeva un nuovo elemento simbolico a testimonianza del transito di San Francesco: la presenza di una cappella nei pressi di una montagnola che sarebbe sorta miracolosamente dopo la sua sosta.
Tuttavia, lo storico amalfitano scriveva che il santo che avrebbe riposato su quella pietra era San Francesco di Paola, ma è da ritenere più ovvia una dedicazione all’assisiate, come testimonia la piccola epigrafe collocata nel 1866 dai cittadini ravellesi lungo le scale che conducono al Convento, ne tanti periret honoris memoria, perché non si perdesse la memoria di tant’onore.
Appare alquanto significativo, seppur con modalità e tempi diversi, che gli elementi del ricordo francescano, nel caso di Ravello, riemergano nell’immediata vigilia delle drammatiche chiusure del convento, decretate dalle soppressioni innocenziana e italiana, ma stranamente non nel caso di quella murattiana del 1809. In questo caso, nel testo trasmesso dalle autorità civili e religiose a supporto dell’antichità dell’insediamento ravellese e per auspicarne la riapertura si preferì, piuttosto, sottolineare il ruolo del convento come santuario di una santità francescana più recente e per questo più consapevole nella memoria collettiva, di cui erano testimonianza l’esempio del beato Bonaventura da Potenza e del Servo di Dio Donato Antonio del Guercio di Caposele.
Questi pochi elementi, che segnano attualmente la dimensione del ricordo del presunto passaggio di Francesco a Ravello, peraltro molto più deboli di quelli amalfitani, non coincidono naturalmente con la documentazione conosciuta e con gli elementi tipici della diffusione del culto, che colloca i primi tempi dell’esperienza conventuale ravellese agli ultimi anni del XIII secolo e ai primi di quello successivo, non essendo collegabile all’istituzione minorita un’iscrizione sepolcrale del 1273 riferita da Gaetano Mansi, che l’aveva desunta da Giovanni Battista Bolvito.
Il Mansi, però, individuava l’esistenza della comunità religiosa in una pergamena del 1297, oggi conservata nel diplomatico dell’archivio del monastero di Santa Chiara, con cui i religiosi viri guardianus vel fratres minores, avrebbero dovuto soddisfare il legato di messe lasciato da un tale Ursone de Vito alla chiesa monasteriale delle Clarisse, conosciuta allora con il titolo di San Nicola di Ponticeto.
Più significativo è, invece, il testamento del 1305 di Leone Acconciagioco, esponente di una famiglia entrata a far parte del patriziato ravellese dall’età angioina grazie soprattutto ai traffici mercantili, come ha attentamente dimostrato Giuseppe Gargano. Il legame del testatore con gli ordini mendicanti avvenne anzitutto in ambito familiare, perché il fratello Giovanni era entrato nell’ordine dei predicatori nel Convento di Brindisi, uno dei più antichi insediamenti dell’Italia Meridionale. Tra gli esecutori delle sue ultime volontà, insieme ai figli Francesco e Angelo, compare, senza indicarne il nome, anche il Guardiano del Convento di Ravello, «indice di quella fiducia che caratterizzò i rapporti fra i ceti urbani e i membri degli ordini religiosi». Di conseguenza sono diversi gli articoli del suo testamento riguardanti il locus fratrum minorum, che venne innanzitutto scelto come luogo secondario della sua sepoltura, nel caso in cui il Vescovo locale non l’avesse concessa nella Cattedrale.
I frati minori beneficiarono, inoltre, di un’oncia per fare le tuniche, la stessa somma per la riparazione del tetto dell’edificio conventuale, 15 tarì per la calce necessaria e quattro once per la riparazione della chiesa.
A margine di questa breve rassegna, i cui elementi sono in parte già noti agli studiosi, si può tentare di proporre qualche conclusione, magari partendo da quanto, con autorevolezza, è stato già scritto da Luigi Pellegrini, per cui l’attribuzione a Francesco della fondazione di conventi in varie località sembrerebbe «un modulo interpretativo abbastanza ricorrente per risolvere in modo lineare, quanto elementare, il problema storico del sorgere e del primo svilupparsi delle comunità minoritiche…snaturando le modalità insediative originarie».
Pertanto, a distanza di quasi quattro secoli da quel 6 novembre 1653, il monitorio dell’Arcivescovo di Amalfi Stefano Quaranta col quale si interpellava ogni persona di qualsivoglia stato, grado e condizione, se sapesse o avesse inteso dire da altri, in potere di chi stessero e si ritrovassero atti di fondazione di conventi sottoscritti con la propria mano di S. Francesco d’Assisi forse non troverebbe mai una risposta. Del resto, come è stato osservato da Attilio Bartoli Langeli e da Nicolangelo D’Acunto, le componenti fondamentali di un archivio conventuale sono essenzialmente due: privilegia e instrumenta. Un convento figura nella sua documentazione, il più delle volte, come destinatario: destinatario dei privilegia, ossia delle lettere dei pontefici e delle altre istituzioni ecclesiastiche di riferimento; destinatario, negli instrumenta, delle attenzioni della società circostante, dai testamenti dei devoti ai provvedimenti delle pubbliche autorità. In minoranza sono gli atti che vedono il convento e i frati assumere formalmente l’iniziativa documentaria.
Gli elementi del ricordo di Amalfi e Ravello sono, però, portatori di altre considerazioni che ritengo non riguardino più l’ormai superata questione del mito o realtà della presenza di San Francesco in Costa d’Amalfi.
Andrebbero, piuttosto, verificate le circostanze per cui questa vicenda riemerse nei primi secoli dell’età moderna in forme diverse nelle due località: ad Amalfi legata alla presenza del corpo dell’apostolo Andrea, utilizzato proprio alla fine del XVI secolo anche come elemento nobilitante la Provincia di Principato dei frati minori dell’Osservanza. A Ravello strettamente connessa alla vita della comunità religiosa, soprattutto nell’imminenza delle continue vicende soppressive del convento.
In questa prospettiva – ritornando a quanto scriveva Cristoforo Bove – «una serie di fatti, con simbologie e segni smarriti e confusi nella memoria, può produrre una doppia storicità, della tradizione che trasmette e dell’interpretazione che trattiene, castiga, rinnova e ricrea significati della tradizione stessa».