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La dura contesa politica ad Amalfi di inizio Novecento: quei colpi di revolver esplosi in Piazza

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di SIGISMONDO NASTRI

Il 5 dicembre 1909: seconda domenica di Avvento. Già di primo mattino la piazza di Amalfi era attraversata da intere famiglie – uomini, donne, bambini, col vestito buono della festa -, dirette in cattedrale per la messa. Il tempo era coperto, minacciava pioggia. All’improvviso ci fu un trambusto, causato da due colpi di revolver. Chi scappava, di cercava di salire velocemente la scalinata del duomo per trovare riparo nella cattedrale. I pochi temerari che accorsero sul luogo degli spari, per capire cosa fosse successo, si trovarono dinanzi questa scena: Giovanni Anastasio, che ancora ancora col revolver stretto nella mano, e Francesco Ruoppolo, steso al suolo sanguinante. I soccorsi al ferito furono immediati, così pure l’arresto dell’autore del delitto.

Giovanni Anastasio, apprezzato pittore e abile caricaturista (si firmavaAnà), dopo la laurea in giurisprudenza faceva le sue prime esperienze professionali nello studio notarile del padre, Nicola, esponente di rilievo del partito delle “sciamberghe” (delle marsine: cioè di una classe sociale elevata), noto anche come partito Camera-Pansa, dato che faceva riferimento a due notabili locali: Luigi Camera e il canonico Giuseppe Pansa.

Francesco Ruoppolo era il potente assessore della giunta capeggiata dal sindaco Nicola Casanova, leader del partito delle “giacchette” (così denominato per evidenziarne il carattere popolare).

La situazione politica, a quell’epoca, è così descritta da Enrico Altavilla:«Al governo del Comune di Amalfi vi sono state sempre a dominare, più o meno dispoticamente, intere caste o intere famiglie, e durante l’imperio di una, vessazioni e ripicchi si usavano sempre in danno dell’altra avversa».Significativo è lo sfogo contenuto in una lettera indirizzata da Clemente Mauro, sostenitore del professore Marghieri, a Roberto Talamo. Reca la data del 25 febbraio 1909: «Quello che più mi addolora è la lotta di Amalfi. Dovremo forse far ritirare il Marghieri. E’ un’intera sollevazione del Collegio contro di lui. Io non ho più che cosa fare: ho scritto lettere a centinaia, ho chiamato un mondo di persone qui; ma il lavoro è ingrato. Non so come si sieno potuti accumulare in pochi anni tanti odi contro un uomo di tanto valore».

Alberto Marghieri, napoletano, avvocato e giurista famoso, docente universitario di diritto commerciale, era stato eletto il 6 novembre 1904, nel collegio della Costiera, battendo il marchese Guido Mezzacapo di Maiori. Il seggio fu poi conquistato dal medico Biagio De Cesare di Minori il 7 marzo 1909 e da Pietro Pellegrino, di Vietri sul Mare, il 27 ottobre 1913. Una cosa c’è da sottolineare: nei primi sessant’anni del regno, non vi fu mai un cittadino amalfitano in competizione per il parlamento. Fino a quando, nelle votazioni per la XXV legislatura, il 26 novembre 1919, non si ebbe l’elezione dell’avvocato Salvatore Camera.

La spiegazione va trovata, forse, in quel che scriveva, già nel 1892, Umberto Moretti: e cioè che gli amalfitani, «pacifici cittadini, ossequientissimi alle leggi, rivolsero costantemente le loro cure alla prosperità delle industrie locali e specialmente pensarono ad allargare sempre più il campo del loro commercio, dal quale ritraggono in gran parte la propria sussistenza».Al punto che la città«non à a rimpiangere alcuna vittima della persecuzione borbonica. Perfino il cambiamento di governo nel 1860, avvenne colà colla più perfetta calma, sottentrando alla vecchia amministrazione, quella stabilita dal governo provvisorio nelle persone del Sig. Torre Andrea, Sindaco, che sostituì il Sig. Matteo Camera, mentre il Pretore (allora Giudice Regio) Sig. Giovanni Giaccheri, rimase in carica».

Un documento del 1909 dichiara esplicitamente che in costiera le scelte elettorale vengono determinate dai grandi elettori che«oggi votano pel candidato di opposizione costituzionale, più tardi potranno sostenere il candidato più sovversivo con la stessa incoscienza o venalità per la quale sono spinti alla lotta ore dall’uno or dall’altro dei due partiti locali».

Il prefetto aveva già manifestato le sue preoccupazioni al governo:«Elementi torbidi Collegio Amalfi, e non sono pochi, vanno cercando una persona possibilmente ricca, da contrapporre all’on. Marghieri, al preciso scopo di creare una lotta per spillare danaro come già fecero. Sino a questo momento non è ben sicuro che loro candidato possa essere De Cesare il quale ancora non ha fatto ritorno dall’America, dove trovasi da due anni e che sarebbe certamente avversario temibilissimo… converrà usare mezzi energici specialmente per Amalfi onde tenere a freno quell’amministrazione comunale».

Ad Amalfi si combatteva una vera e propria guerra per il potere, senza esclusione di colpi. Riferiamo due episodi che ci sembrano particolarmente illuminanti.

Il 16 ottobre 1903, il sindaco Casanova denunciò al Procuratore del Re di Salerno il notaio Anastasio (che aveva autenticato la firma di un cittadino, risultata falsa) in calce alla domanda di iscrizione nella lista elettorale. L’Anastasio era sotto tiro per il suo passaggio all’opposizione, dopo essere stato eletto consigliere comunale nelle file del partito Casanova. In quella che veniva ipotizzata come “frode elettorale” era coinvolto persino il canonico Pansa, accusato di non essere “modello di virtù”, di spendere tutta la sua energia “accaparrando il maggior numero di elettori” e, in un certificato rilasciato dal sindaco, di serbare “una provocatrice condotta”.

In un rapporto del brigadiere comandante della stazione Carabinieri, Paolo Romeo, in data 29 febbraio 1904, si legge:«Tanto il notaio Anastasio Nicola quanto il Branda Pietro e il Galoppi Nicola (questi ultimi firmarono l’atto in qualità di testimoni) sottoscrissero la domanda (di tal Lucibello Andrea) bonariamente, senza sapere di commettere una falsità, tanto più che il Branda, che essendo allora giovane di studio del notaio Anastasio, ha dovuto per giocoforza cedere alle richieste di questo. Sono responsabili invece il Proto Francesco fu Giuseppe che presentò la domanda al notaio Anastasio, ed il signor Pansa Giuseppe sacerdote che l’ha provocata. Tutti i pervenuti, nonché il Camera Luigi fu Andrea, sono contrari al partito Casanova, anzi l’Anastasio fino a poco tempo fa era associato agli attuali amministratori, anzi era stato il capo dirigente di quel partito Casanova, ma poi per questioni d’interessi con Casanova e per altri privati si divise dal partito».Il giudizio si risolse con una dichiarazione di«non luogo a penale procedimento per difetto di indizi».

I due colpi di revolver esplosi in piazza, quasi ai piedi della scalinata del duomo, la mattina del 9 dicembre 1909 vanno riferiti a un quadro generale che vedeva Amalfi divisa in due blocchi: le “sciamberghe” e le “giacchette”. L’assessore ferito, Francesco Ruoppolo, morì dieci giorni dopo a Napoli, nella clinica dove era stato ricoverato, per sopraggiunta setticemia. Il processo che ne seguì si concluse il 27 marzo 1914 con una sentenza di assoluzione piena. Davanti ai giudici sfilò un’intera città – notabili e popolani, religiosi e laici – il più delle volte a dichiarare il falso, a seconda del gruppo di appartenenza. La suddivisione in “buoni” e “cattivi” poteva anche avere il sigillo dell’ufficialità. Ne è prova un documento del 21 gennaio 1911 col quale il sindaco Casanova attesta«che i signori Guido e Ferdinando Francese, Girolamo Gambardella, Francesco di Pino, Camera Andrea ed Alfonso, Amodio Salvatore, Scoppetta Vincenzo, Nastri Antonio ed Alfonso, Luigi di Lieto, Pansa Gabriele e Giuseppe, de Stefano Pasquale e Saverio, Amatruda Giovanni, Amatruda Salvatore, d’Amato Gennaro erano notoriamente nemici accaniti di Ruoppolo Francesco e, per ragione di parte, sono capaci di mentire alla Giustizia per favorire i loro Alleati ed amici Giovanni Anastasio ed Andrea Pace».

In campo opposto, Antonio Camera, Girolamo Gambardella e Guglielmo Francese, persone appartenenti ad una condizione economica e sociale elevata, subirono una condanna per avere dichiarato di aver visto Ruoppolo che percuoteva con un ombrello l’Anastasio. La circostanza non fu ritenuta veritiera. Ciò nonostante, tra le due tesi, complotto politico o legittima difesa, la Corte di Assise optò per quest’ultima. Vale la pena di ricordare [a mi viene da ridere, pensando a quello che si verifica oggi] il movente del delitto: un’ordinanza del sindaco, emanata due giorni prima, subito notificata, imponeva alla famiglia Anastasio di abbattere una casa in via “fuori Vagliendola”, costruita – così risulta dagli atti – su suolo pubblico. Si trattava di un abuso commesso per lo meno da vent’anni. Era stato contestato il 15 dicembre 1895. Il 17 settembre 1898 il consiglio comunale aveva deciso di chiudere la questione con una sanatoria, senza prevedere alcuna sanzione pecuniaria. Di conseguenza, l’atto deliberativo non fu approvato dalla Giunta provinciale amministrativa. Dopo oltre dieci anni, era stato proprio il Ruoppolo a tirare fuori la pratica dall’archivio. In sede dibattimentale, la difesa di Giovanni Anastasio sostenne che«quest’ordinanda di abbattimento era il monito solenne – al partito avversario in minoranza – che il partito dirigente, composto da uomini energici, non perdonava e non indugiava».

Tratto da: Amalfi: gli eventi e la società sul finire del XIX secolo.

In: Pietro Scoppetta: un pittore sulla scena della Belle époque, a cura di Massimo Bignardi, Salerno, Edizioni De Luca, 1998.

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