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Le conserve di pomodoro d’agosto, una tradizione sempre viva in Costiera Amalfitana

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di EMILIANO AMATO

Solo al ricordo, l’olfatto fa la sua parte e consente di riavvolgere il nastro della memoria. Quell’odore di pomodoro fresco, passato sotto il sole d’agosto, con il sottofondo delle cicale, come fanno le formiche laboriose pensando al freddo inverno, resta evocatore di famiglia, semplicità, spensieratezza. Chi di noi non “conserva” i propri ricordi legati a uno dei riti ancestrali della tradizione contadina e casalinga del Sud?

In tempi di globalizzazione totale la preparazione delle “bottiglie di pomodoro” resiste con forza specie in Costiera Amalfitana: un momento di condivisione quasi spirituale, in cui ogni componente della famiglia al gran completo, è chiamato a offrire il proprio contributo in vista del freddo inverno per la preparazione del classico ragù domenicale.

Comparso in Europa in seguito alla scoperta dell’America, il pomodoro non fu subito adibito a uso alimentare, perché tacciato di poteri eccitanti e afrodisiaci. Soltanto intorno al 1700 in Italia comparvero le prime ricette che prevedevano il suo utilizzo fino ad arrivare, nel Novecento, alla preparazione delle bottiglie di pomodoro, specie nel Mezzogiorno.

Inizialmente i pomodori “San Marzano” venivano ricoperti di sale e messi al sole fino a completa essiccazione. Quindi si passavano al setaccio in modo da ottenerne una salsa densa che veniva esposta al sole per altri giorni. Divenuta scura, veniva conservata in vasi di creta o vetro, chiusi poi con uno strato di foglie di basilico o di fico e uno di carta pergamena.

Questa procedura fu presto abbandonata per passare a quella meccanica che ancora oggi nonne e massaie continuano a preferire. I pomodori erano gli stessi – San Marzano -, ma non dovevano essere essiccati, bensì cotti in grandi calderoni. Quindi venivano trasferiti, una volta tiepidi, al passa-pomodoro a manovella per frullarli più volte e ottenere la salsa.

Le bottiglie (quelle da 66 centilitri in vetro marrone della Birra Peroni) erano quindi riempite con l’aiuto di un imbuto (l’operazione che in genere appassionava di più i bambini, liberi di macchiarsi con quella salsa odorosa) e sigillate ermeticamente con tappi in metallo, fissati al becco di vetro con l’apposito macchinario manuale. Poi il momento più delicato: quello della cottura e della pastorizzazione. In grossi contenitori metallici (solitamente bidoni da carburante) bisognava posizionare sapientemente le bottiglie per evitare che si spaccassero. Per questo motivo, alcuni adagiavano sul fondo e all’apice dei bidoni dei pezzi di sacchi di iuta.

Con la cenere ancora calda, quella che rimaneva del legno acceso per cuocere il pomodoro (è più recente l’uso dei fornelli a gas), molti lessavano le patate avvolte una ad una nella carta stagnola. Ci voleva un po’ di tempo affinché cuocessero, ma il sapore tra il bruciacchiato e il dolce era la giusta gratificazione dopo il lavoro con i pomodori. Scene da piccolo mondo antico, di sapori e di odori legati indissolubilmente ai ricordi del passato e magari di volti e gesti di persone care, passate a miglior vita.

Archivio Emiliano Amato

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