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Vacanze per tutti… i gusti

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di Novella Nicodemi

Vacanza (dal latino vacantia, neutro plurale sostantivato di vacans, participio presente di vacare ossia essere vuoto, libero) è assenza. Un vuoto, necessario. Una leggerezza che spazza via, momentaneamente, il pieno, il troppo pieno, e il pesante, il troppo pesante. Un vuoto che è libertà: di fare ciò che si vuole senza rendere conto a nessuno, dove ci si sente padroni del proprio tempo e del proprio spazio. Dove non esistono impegni inderogabili, e non c’è nessuno che rompe le scatole. Dove si riprende il contatto con sé stessi. Oppure, se quello che siamo e facciamo non ci soddisfa, si può essere ‘altro’ ‘altrove’.

La vita di oggi è così frenetica e compulsiva che la spina non si riesce mai a staccarla. Tutti vogliono qualcosa da noi: figli, genitori, datori da lavoro, la società, l’esattore delle tasse, il vicino di casa, lo stato, il mondo intero. Incombenze, doveri, scadenze: un vortice di cose da fare, e per tempo, che ci travolge fino a schiacciarci e tutto finisce con l’essere un automatismo, uno schema che ci imbriglia. Tutto si risolve nel meraviglioso ossimoro montaliano ‘immoto andare’, sfiancante per il fisico e la mente.

Anche quando i ritmi di vita non erano così nevrotici, si avvertiva questa esigenza. I romani, già dal I secolo a.C., alternavano i lunghi periodi di attività lavorativa, il negotium, con rigeneranti intervalli dedicati al riposo, ma anche agli studi, alla lettura e alla meditazione, l’otium.  Le destinazioni preferite erano le ville suburbane, le terme, e, inutile dirlo, le località della Campania felix.

In età moderna, c’era la villeggiatura. Nel 1700 nobiltà e alta borghesia trascorrevano in villa, in campagna, il periodo da maggio a inizio novembre, inizialmente per divertimento, poi per seguire una moda da cui si evinceva lo status sociale. Per la serie: quelli che contano vanno in villeggiatura. Gli altri non se lo possono permettere.  E per andarci, si facevano anche follie, come ben raccontano i deliri dei personaggi delle tre commedie del veneziano Carlo Goldoni: Le Smanie per la Villeggiatura; Le Avventure della Villeggiatura; Il Ritorno dalla Villeggiatura. La villeggiatura non si poteva non farla. Che avrebbe detto la gente? Anche a costo di indebitarsi. Sempre nel XVIII secolo, impazza la moda del Grand Tour (da cui deriva il lessema turismo): giovani dell’élite del nord Europa, prevalentemente inglesi, sceglievano di soggiornare, per mesi ma anche per un intero anno, soprattutto in Italia (oltre alla classica Grecia): Roma, Venezia, Napoli, la Costiera amalfitana, con Ravello in pole position, erano le mete privilegiate per coniugare a un periodo di benessere psico-fisico la scoperta di monumenti, siti archeologici e luoghi di interesse storico-culturale.

Per i comuni mortali vennero introdotte, prima come gentile concessione alla fine dell’Ottocento in Inghilterra, poi nel XX secolo come diritto, le ferie pagate. Il primo stato a concederle fu la Francia. In Italia, durante il ventennio fascista si organizzavano escursioni giornaliere, a prezzi accessibili a tutti, verso mete balneari sulla base del concetto curativo dell’elioterapia, ma solo nel 1948 l’articolo 36 della  Costituzione repubblicana sancisce che “Il lavoratore ha diritto a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi”. E così, nel dopoguerra, uno dei simboli del boom economico era rappresentato proprio dalla possibilità, estesa trasversalmente a tutte le fasce sociale, di andare in vacanza.

Tanto tempo è passato, eppure le cose stanno ancora così. La vacanza è ancora uno status symbol.

Oggi, se non hai visto l’aurora boreale, se non hai nuotato con gli squali ai tropici, se non hai fatto un bel giretto a dorso di cammello nel Sahara nel mezzo di una tempesta di sabbia, sei uno sfigato.

Certo, ci sono le vacanze intelligenti. Giorgio Manganelli, fine intellettuale, che considerava le vacanze, in generale, “chiassose, afose, ciarliere, euforiche, prodighe”, non amava questa locuzione: “Detesto il concetto di vacanza intelligente, che recentemente ha avuto gran successo; mi pare presupponga che l’anno sia tutto idiota, eccetto quei quaranta giorni”.” […]Chi si voglia tenere sul sicuro si chiuderà in casa, meglio se in una unica stanza, con scuri abbassati, catenaccio alle porte, telefono staccato, camminar solo di pantofole, strascicato e morbido (Giorgio Manganelli, Improvvisi per macchina da scrivere,1989). Quindi, per chi ama la solitudine, o per i misantropi incalliti, l’unica vacanza intelligente è quella che non si fa. Anche viaggiare infatti, per quanto possa essere entusiasmante, è tutt’altro che riposante. Perché anche in quel caso ci sono orari, file, valigie da fare e disfare, esseri umani – o disumani – da sopportare…

Oggi poi, nell’era del pieno sviluppo della rivoluzione tecnologica dovuta all’introduzione dei media digitali e dei social network, andare in vacanza è diventato un imperativo categorico.

L’homo ‘vacanzierus’ 2.0 è una curiosa specie antropologica che potremmo raggruppare in tre categorie.

C’è chi ci tiene a tutti i costi a farsi immortalare h 24 nella sua vacanza da urlo: e giù selfie dalla scaletta dell’aereo, in costume, in abito da sera, mentre mangia, mentre prende il sole, all’alba e al tramonto, fino al ritorno a casa con i costosissimi souvenir immancabilmente acquistati. A fine viaggio, muscoli del volto quasi paralizzati per tutti i sorrisi forzati nelle innaturali pose. Foto scattate: tremila. Cestinate: duemilasettecento. Postate: trecento. Ritoccate con photoshop: trecento. Alla fine si cambia talmente tanto i connotati per sembrare più magro, alto e figo che quello in foto non è più lui e quindi si gioca le prove che veramente c’è stato in quel posto da vip.

C’è chi invece millanta vacanze in posti esotici che non farà mai. L’importante è che tutti pensino il contrario. E comincia a organizzarsi mesi prima, a seminare in ufficio falsi indizi del tipo ‘quest’anno ho proprio bisogno di andare fuori, lontano, ma qualcuno, in mia assenza, può dar da mangiare ai pesci? Qualcuno mi può annaffiare le piante?’ Lo chiede ai colleghi perché, per ricorrere a questi patetici trucchi, è di sicuro un caso umano, e quindi uno straccio di amico   non ce l’ha. Il piano prosegue con un trasferimento strategico: va a Roccacannuccia a trovare la vecchia zia vedova   ed esce solo per fare la spesa con occhiali scuri e cappello per non farsi sgamare. Si mette ore e ore sul balcone della zia per abbronzarsi. Quindi, mentre la zia dorme, allestisce veri e propri set cinematografici nel salotto con sfondi truccati e cambio abiti. Patetico ma ingegnoso.

C’è infine chi finge di partire ma si barrica in casa per una settimana con finestre e persiane serrate: le cosiddette vacanze ‘talpa’. Previa provvista di viveri, il mentitore è disposto a rintanarsi per giorni e giorni senza fare rumore o accendere luci pur di far apparire la casa vuota. Quando dirà di essere tornato, in piena notte, per giustificare il pallore ospedaliero simil-vampiro, dirà alla gente di essere stato in una città d’arte, per i suoi interessi da intellettuale che preferisce i musei alle spiagge-carnaio intasate dalla volgare folla, così come odia l’ostentazione sui social, ragion per cui niente foto. A chi gli dirà che è anche dimagrito, risponderà che il suo cibo è stata la cultura, quando in realtà, senza poter accendere il condizionatore, ha fatto sette giorni di sauna.

Insomma, qualsiasi sia il vostro concetto di vacanza ideale, reale o virtuale, vera o simulata, buone vacanze a tutti.

redazione
http://www.quotidianocostiera.it
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