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Chi è il prete oggi?

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di FRANCESCO CRISCUOLO

La Chiesa particolare di Amalfi – Cava De’ Tirreni si è arricchita, lo scorso 30 giugno, di un nuovo presbitero. Il giovane minorese don Daniele Civale, a conclusione delle prescritte tappe formative, ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale per l’imposizione delle mani dell’arcivescovo mons. Orazio Soricelli.

Di fronte alla generosa risposta alla chiamata di Chi lo ha scelto (Gv15,16) occorre inchinarsi e far propria l’invocazione del Poeta: “Oh vero sfavillar di Santo Spiro” (Par. XIV,76).

Si tratta di una realtà, che esalta ed onora la comunità civile ed ecclesiale di Minori, tanto che il popolo minorese ha vibrato all’unisono con questo suo degno figlio, manifestando corale esultanza domenica 3 luglio, quando egli, in una cornice di rara e festosa solennità, ha celebrato la prima messa nella Basilica di S. Trofimena.

A nessuno può sfuggire la forte risonanza e rilevanza di questo fatto, non solo per la sua singolare eccezionalità, ma anche e soprattutto per la densità e l’importanza del suo significato, che, al di là dei meritati festeggiamenti, non può non dar luogo a qualche riflessione, forse consciamente o inconsciamente percepita dalla stessa moltitudine ossannante.

Non si può, pertanto, non partire da una domanda di fondo: chi è il prete oggi?

Il cumulo di luoghi comuni e pregiudizi sulla figura del prete, espressi anche con un armamentario lessicale talora inquietante, fa parte di una sorta di sport nazionale che, al netto della diffusa indifferenza, è duro a morire. Talvolta anche tra persone di fede – duole dirlo – si annidano incrostazioni mentali e concezioni poco corrette sull’identità della missione sacerdotale.

Chi è investito dell’ineffabile munus del sacerdozio viene considerato, di volta in volta e a seconda delle circostanze, un funzionario del culto, l’artefice e il protagonista di una specie di sacred management, l’organizzatore e animatore di varie attività ludiche per i bambini o assistenziali per gli anziani, l’elemento di ornamento o di completamento nelle manifestazioni pubbliche, da svolgersi “alla presenza di autorità civili, militari e religiose”, il guardiano e il manovratore di una stazione di servizio da cui partono quelle che P. Agostino Gemelli definiva “le quattro carrozze” del battesimo, della prima comunione, del matrimonio, dell’accompagnamento dei moribondi e dei defunti, il referente di un’ idea di potere disinvoltamente alimentata da taluni laici insiders di sacrestia, abituati a guardare alla complessa situazione socio – religiosa ed etico –  politica odierna “con la veduta corta di una spanna” (Par. XIX, 81).

Questa visione alquanto distorta e palesemente riduttiva, spesso strombazzata dai media, ha fatto il suo tempo. Si fa strada, sulla scorta degli esempi luminosi di grandi anime come don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, don Tonino Bello, l’immagine di un presbitero che non svolge soltanto un servizio religioso per coloro che lo richiedano, ma va verso tutte le donne e tutti gli uomini bisognosi di luce e di conforto nei drammi del vivere attuale per trasmettere un messaggio di valenza generativa di Fede e, quindi, per comunicare l’ansia di trasformarsi in testimoni della Parola che viene dall’alto.

Il prete è colui che segue più da vicino il maestro, camminando direttamente sulle sue orme, anzi è un alter Christus, cioè tanto intimamente unito a Cristo da rispecchiarne, nel suo stesso essere e nella sua azione formatrice delle coscienze e dei cuori di tutti, l’insegnamento, la testimonianza, la vita. Questo alto profilo lo rende veramente “un segno di contraddizione” (Lc 2,34) rispetto al “cinismo di una società secolarizzata che nega le proprie basi umanistico – cristiane”, come ebbe ad esprimersi nel febbraio 2005 l’allora card J. Ratzinger, poi Papa Benedetto XVI.

L’assetto sociale in cui viviamo è sostanzialmente quello disegnato con lucidità in un analisi tracciata, qualche anno prima della morte nel 1965, dallo scrittore inglese Thomas Stearn Eliot, in cui è scritto tra l’altro: “Noi stiamo accorgendoci che l’organizzazione della società sulle basi del profitto individuale e della distruzione collettiva dei beni conduce sia al deturpamento dell’umanità sia all’esaurimento delle risorse naturali. Forse  sarebbe meglio che riflettessimo sulle condizioni immutabili alle quali Dio ci permette di vivere in questo pianeta. Dobbiamo ancora imparare che, solo con uno sforzo e una disciplina più severa di quanto la società abbia sentito il bisogno di imporre a se stessa, si può acquistare la conoscenza e il potere materiali e senza perdere la conoscenza e il potere spirituali.

Tutti sperimentiamo l’assurdità di una convivenza umana, tipica del mondo occidentale “ sazio e disperato”, il cui dio è il denaro, la cui legge è il successo del singolo anche a danno degli altri, il cui tempo è scandito dai ritmi incalzanti degli assilli quotidiani confinati nel puro presente e nell’utile immediato.

Si avverte, anche nei nostri piccoli contesti di esperienza, l’urgenza di un cambio radicale nella scala dei valori, che privilegi, a posto della mera efficienza produttiva e speculativa, dell’individualismo sfrenato, della sbornia tecnologica, la solidarietà, l’accoglienza reciproca, l’ascolto e la stima dell’altro, la riconciliazione delle differenze, il dialogo fraterno, il perdono,vere forze vitali di cui il prete è il centro motore e il catalizzatore.

Con il perdono, concesso attraverso la confessione e con la celebrazione eucaristica che rappresentano il proprium del sacerdozio ministeriale, è possibile aprire nuovi spazi di serietà e di giustizia, di tutela dei deboli, di ricerca del significato profondo di vita per una maggiore apertura a Dio e al conseguente servizio al prossimo.

In particolare, con la confessione, che va intesa come porro unium necessarium (Lc10,42), ma che oggi è fin troppo trascurata, si dà il modo di misurare e accrescere il bene che, quale acqua pura, zampilla da una sorgente più limpida, atta ad innaffiare, a risanare e a rigenerare la “generazione perversa ed incredula” (Mt 17,17) da ogni radice di male.

È stato un osservatore laico, anzi un esponente di punta del laicismo italiano del Novecento, lo storico e giurista Alessandro Galante Garrone, a definire con commovente e realistica efficacia la funzione preziosa e insostituibile del prete nel mondo contemporaneo, annotando su “La Stampa” di Torino nel luglio del 1990: “Ci sono molti meno preti oggi, e molte meno suore. Ma sono migliori. Li troviamo in tutti i luoghi in cui la società fallisce. Dove gli esseri umani soffrono. Dove gli economisti, i politici, i servizi sociali perdono la speranza. Allora arriva il prete. Magari da solo. Lui non si aspetta grandi risultati. Non ha obbiettivi, traguardi, target, scadenze, bilanci. Lui fa semplicemente tutto ciò che può. E vi spende la vita”.

In questo spirito don Daniele, novello sacerdote, ben formato e temprato fin dalle ascendenze familiari e sinceramente legatoalle esperienze associative locali, ha tutti i presupposti per essere “sentinella del mattino” (Is 21,11-12) capace di annunciare e concretizzare giorni radiosi di speranza e di amore.

I minoresi tutti glielo augurano di cuore.

Foto: Giuseppe Proto

redazione
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