di NOVELLA NICODEMI
Si chiamano sport estremi per un semplice motivo: sono estremi. Non moderati, estremi. Il concetto di misura è completamente bypassato, non è proprio contemplato.
Alcuni comportano tempi molto lunghi e isolamento, come l’alpinismo, il canottaggio oceanico o le spedizioni polari: la soddisfazione finale deriva dalla conquista di un risultato eccezionale (come il raggiungimento della vetta del Monte Everest da parte di George Mallory che gli costò la vita nel 1924) derivante da inaudite privazioni, dalla sopportazione della fatica e della noia. Altri – la maggior parte – prevedono invece una performance di breve durata, finalizzata alla sperimentazione di emozioni estreme.
Philippe Petit – il funambolo e artista di strada che nel 1974 salì al 110° piano di una delle Twin Towers a New York percorrendo in venti minuti un cavo d’acciaio teso tra i due grattacieli a 417 metri d’altezza – può essere considerato il precursore di questo genere di imprese.
Attività sportive estreme come questa un tempo erano di nicchia, ora sono diffusissime, una vera e propria mania: parkour, base jumping o bungee jumping torrentismo, sci di velocità in quota, skateboarding, immersioni in grotta, arrampicata su ghiaccio, funambolismo, hydrospeed, surf da onda, lancio con tuta alare, deep water soloing.
I “sensation seekers”, i “cercatori di emozioni” vogliono superare i propri limiti, sfidando sé stessi e la natura. Il rischio fa parte del gioco, anzi il rischio è il gioco.
Mettere a repentaglio la propria vita è una componente che si mette in conto in partenza. Quello che conta è il brivido, col rilascio massiccio di endorfine e la scarica adrenalinica elettrizzante che ti fanno sentire onnipotente. Ma oltre a questo aspetto, molti giovani che praticano sport estremi cercano anche l’esaltazione personale, l’ammirazione degli altri, specialmente sui social, magari riuscendo a trovare sponsor e produttori. Non solo brividi, ma anche soldi e fama.
Una cosa è la ricerca di sensazioni forti, un’altra il sensazionalismo.
Postare le proprie folli imprese sui social, condividerle sul web, a volte implica fanatismo. Si rincorre quel quarto d’ora di celebrità che oggi non si nega a nessuno. Ma la spettacolarizzazione a tutti i costi delle proprie prestazioni al limite può portare a imprudenza, incoscienza e sprovvedutezza che possono essere fatali.
Sì, perché un’impresa sportiva estrema va pianificata tenendo conto non solo delle proprie capacità, ma anche del territorio.
Ogni territorio è unico, con le sue peculiarità morfologiche e paesaggistiche, le sue fragilità e criticità, ed è inserito in un ecosistema che ha i suoi equilibri.
Specialmente un territorio complesso come quello della Costa d’Amalfi.
Il giovane georgiano che pratica parapendio in giro per il mondo, quando si è lanciato da Agerola verso il Fiordo di Furore schiantandosi sulle rocce, purtroppo con gravi conseguenze, forse, e dico forse, avrebbe dovuto considerare cosa sia un fiordo. Se il Fiordo si chiama così, un motivo ci sarà: è un fiordo! Altrimenti si sarebbe chiamato “dolce pendio leggermente degradante verso ampie e soffici distese di sabbia”.
Neanche i numerosi infortuni o le tragiche morti di turisti sembrano costituire un deterrente per comportamenti rischiosissimi. Non bisogna per forza scomodare drammatici casi di cronaca- come la turista scandinava precipitata dal Sentiero degli Dei, che pare stesse in posa per una foto, o la turista argentina inghiottita dalle onde proprio al Fiordo di Furore -, basterebbe riflettere su quanti escursionisti dilettanti si perdono o si feriscono periodicamente in costiera amalfitana.
Anche l’escursionista infattidovrebbe preliminarmente informarsi della natura del tragitto che si accinge a percorrere, dotarsi dell’attrezzatura idonea, e non andare all’avventura come Indiana Jones. Fare un’escursione ad esempio sul Sentiero degli Dei non è esattamente la camminatella postprandiale, molto utile per la digestione, che si fa nel parco sotto casa. Bisognerebbe approcciarsi a un territorio con la stessa discrezione e circospezione con cui ci si approccia a una persona che si conosce da poco: in punta di piedi, mantenendo un profilo basso, osservando, con prudenza.
La superficialità e la mancanza di responsabilità non sono ammissibili.
C’è bisogno di conoscere bene il territorio, informarsi presso gli organi preposti, chiedere le opportune autorizzazioni, prendere tutte le precauzioni necessarie prima di lanciarsi – è proprio il caso di dirlo – in iniziative che potrebbero costare care, a sé stessi, agli altri e alla comunità. Si eviterebbero anche carichi di superlavoro sia ai soccorritori che agli ospedali, con dispendio peraltro di risorse finanziarie della collettività.