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Il mistero della Genovese

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di GIUSEPPE GARGANO

Una delle pietanze piuttosto antiche presenti nella cucina napoletana è di certo la Genovese. Ci chiediamo come mai un piatto campano presenti un titolo che richiama un’altra regione d’Italia, addirittura collocata al Nord e alla città di Genova, capitale di una repubblica marinara definita per tradizione “La Superba”? Prima di analizzare le sue possibili origini, dobbiamo attestare che il nome sicuramente tradisce una relazione con il mondo ligure, almeno in qualche modo.

A riguardo della sua ideazione circolano da qualche secolo alcune proposte, che col tempo hanno assunto il sapore della leggenda.

Secondo una di esse, tale pietanza sarebbe stata cucinata nelle taverne del porto di Napoli nel XV secolo, cioè al tempo dei sovrani aragonesi, per sfamare i numerosi marinai genovesi che vi sbarcavano per motivi commerciali.

Un’altra sostiene che sarebbero stati proprio cuochi genovesi a produrla per primi in ambiente napoletano.

Un’altra ancora si riferisce ad un fantomatico cuoco inventore, gastronomo partenopeo, il cui soprannome sarebbe stato ‘O Genovese; una versione sullo stesso tema ritiene che costui avrebbe assunto proprio il cognome Genovese, tra l’altro alquanto diffuso in area campana.

Tutte queste ipotesi potrebbero essere superate da una notizia documentaria del periodo angioino, quindi precedente alle datazioni sopra riportate. L’anonimo autore del Liber de coquina, redatto presso la corte angioina napoletana (XIV secolo), riporta un’interessante ricetta in proposito: «De tria ianuensis – Ad triam ianuensem, suffrige cipolas cum oleo et mitte in aqua bullienti, decoque, et super pone species; et colora et assapora sicut vis. Cum istis potes ponere caseum grattatum vel incisum. Et da quandocumque placet cum caponibus et cum ovis vel quibuscumque carnibus».

«Tria genovese – Per la tria genovese, soffrigi cipolle con olio e mettile in acqua bollente, falle cuocere e poni sopra le spezie; colora e assapora così come vuoi. Puoi grattuggiare su di esse formaggio vaccino oppure puoi metterlo a pezzi tagliati. Quando ti piacerà, potrai unirle con carne di cappone e uova o altro tipo di carne».

E’ chiaro che si tratta di un condimento da unire alle carni. E’ lecito, comunque, chiedersi perchè si chiamava tria ianuensis.

Il geografo arabo Idrisi, che risiedeva presso la corte di Ruggero II di Sicilia, verso il 1135 nella sua opera Libro per chi si diletta di girare il mondo scrive: «A ponente di termini è un abitato che s’addimanda ‘at tarbi’ah (Trabia) (= “la quadrata”): incantevole soggiorno; (lieto) d’acque perenni che (danno moto a) parecchi molini. La Trabia ha una pianura e de’ vasti poderi ne’ quali a si fabbrica tanta (copia di ) paste (itriyah = focaccia tagliata a strisce, vermicelli) da esportarne in tutte le parti (specialmente nella) Calabria e in altri paesi di Musulmani e di Cristiani: che se ne spediscono moltissimi carichi di navi». Da tale descrizione si rileva che, ancora sotto la dominazione normanna, a Trabia, in Sicilia, gli arabi del posto producevano paste alimentari esportate almeno in Calabria. Tra queste vi era la itriyah (tria), messa ad essiccare al sole, poi conservata in luoghi chiusi e riscaldati da bracieri. Si trattava di pasta lunga, dalla quale sarebbero poi discese le trenette dai bordi ondulati. Molto probabilmente i genovesi, che frequentarono la Sicilia sin dalla conquista normanna, importarono la tria nella loro terra, dove cominciarono a riprodurla. In età angioina, poi, l’avrebbero introdotta a Napoli, dov’erano praticamente di casa per motivi politici e mercantili. Qualche cuoco napoletano dovette impiegare allora questa pasta, definita ormai tria ianuensis, condita con la salsa di cipolle di cui sopra e con la carne di cappone, di maiale o vaccina. Quindi dalla pasta (tria) con l’attributo genovese per la sua origine di produzione sarebbe nata l’omonima pietanza.

Dell’antica ricetta napoletana nel corso del tempo sono state riprodotte diverse varianti. Anche in Costa d’Amalfi ve n’è una che possiamo datare all’Ottocento, magistralmente preparata per circa due secoli da esperte donne conduttrici di trattoria e giunta sino a noi grazie a Teresa Grimaldi per il tramite di sua madre, la celebre Gemma, e poi passata dal fratello cuoco Mario detto “Maruzziello” alla “Taverna dei Cartari”. La Genovese di Gemma si fa con un pezzo di carne di vitello (cima di colarda), affogato a cuocere in un mare di bionde cipolle, arricchite di pomidorini maturi, carota, sedano, salame napoletano, grasso di prosciutto e irrorato di chicchi di pepe nero, di olio di oliva e di sale. La salsa così preparata serve per condire innanzitutto i maccheroni della zita spezzati in quattro; in ultimo naturalmente formaggio grattuggiato. Questa ricetta potrebbe derivare da una ben più antica in uso nella Costa d’Amalfi; una traccia in proposito potrebbe fornircela la notizia documentaria della coltivazione di cipolle lungo il litorale e nelle zone interne di Maiori sin dal Basso Medioevo. In ulteriore soccorso verrebbe un detto popolare, un chiasmo antitetico, utilizzato per sottolineare la voluta deviazione dal filo logico conduttore di un ragionamento: «’A ro’ vieni?/ Porto cepolle./ A quann’e vinne?/ Vengo ‘a Maiure».

redazione
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