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Costa d’Amalfi: una perpetua febbre elettorale

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di FRANCESCO CRISCUOLO

Tra qualche mese la scena pubblica di alcuni piccoli centri della Costiera amalfitana sarà invasa dai quinquennali appuntamenti e movimenti connessi alla regolare cadenza delle elezioni amministrative. Solo quattro su dodici comuni, vale a dire Furore, Atrani, Minori e Tramonti, sono coinvolti in questo unico turno regolare e numericamente più massiccio su scala nazionale, non avendo conosciuto alcuna gestione commissariale nei circa 80 anni di storia della Repubblica.

Non è difficile, per qualsiasi osservatore esterno, constatare che, al di là di non sempre plausibili moti di passionalità faziosa, l’approccio del vero soggetto protagonista, che è il popolo, non si configura univocamente rispetto a quanto viene sottoposto al suo insindacabile giudizio.

Furore continua a recare l’impronta duratura del formidabile impulso di rinnovamento impresso dal mai abbastanza compianto storico sindaco Raffaele Ferraioli.

Atrani, splendidamente ripresasi dal traumatico disastro dell’alluvione del 9 settembre 2010, dimostra di voler portare a compimento, giorno dopo giorno, il generale balzo in avanti propiziato dai sindaci succedutisi dai primi anni 2000, tanto da meritare di assurgere, come riconosciuto qualche settimana fa dal prestigioso quotidiano inglese “Daily Mail”, al rango di set cinematografico internazionale.

Tramonti, da par suo, sulla spinta del lavoro illuminato di chi ne ha fin qui guidato le sorti, rivela, come attraverso le sfaccettature di un diamante, il volto nuovo e moderno determinato dalla sapiente utilizzazione di risorse socio-economiche che si giovano dell’innegabile rilancio di una pluralità di comparti produttivi.

Ben diversa la realtà a Minori. Qui gli slogan, i calcoli, i posizionamenti, i toni propagandistici, che non hanno soluzione di continuità da parte di chi da ben 15 anni si intesta il titolo esclusivo per “dare le carte” a ogni pie’ sospinto, richiamano, in questa fase immediatamente preparatoria, una temperatura che si innalza, una febbre che sale, un braciere che arde. Il contesto che si costruisce, l’aria che si respira, la macchina che viene messa in moto convergono in direzione dell’unica meta di elezioni e rielezioni, alla quale, come a un moloch, ogni altra prospettiva dev’essere sacrificata con un dispiegamento di energie e di sforzi a tutto campo, volto a porre nell’oblio macroscopiche storture e contraddizioni accumulatesi nel tempo.

Non serve armarsi di una preconcetta ostilità per osservare un panorama fatto di sciatteria e noncuranza per la regolarità dei servizi essenziali, di mancati investimenti nel tanto atteso restyling della viabilità cittadina, di apparente e disordinata accelerazione dell’economia turistica, di correlativo poco solido mercato del lavoro, di marcati squilibri negli assetti del territorio, di carenza di buona qualità del vivere. Né ci si può nascondere dietro un dito per fingere di ignorare che il lungomare California ingombrato da logore e malandate imbarcazioni per gran parte dell’anno, lo stato di abbandono delle zone alte, il degrado di suggestivi angoli centrali e periferici fotografano un paese al collasso, al quale maldestramente si pretende di ridare smalto con la progettata variante in galleria sulla SS. 163 tra Minori e Maiori, sui cui irreparabili guasti lo scrivente si è soffermato in un precedente articolo su questo stesso giornale in data 24/01/2024.

Ci si trova di fronte a un modello  di certo non esemplare di gestione, che non è frutto dell’inerzia degli organi preposti, ma chiama in causa il modo stesso di concepire l’azione amministrativa, che non pone al centro l’attenzione al bene comune né dimostra una capacità di avvincente coinvolgimento in vista della costruzione di un progetto condiviso. Per essa non conta il soggetto titolare di diritti e di doveri, il cittadino nella pienezza delle sue attribuzioni, l’uomo o la donna nella sua dimensione personale e sociale: conta soltanto il portatore di voti. Sotto questo profilo, finisce per rivestire un’importanza preminente non la persona degna di rispetto in quanto tale e in quanto parte di una più ampia comunità, ma il destinatario di “favori” a qualsiasi livello e ad ogni costo, che viene, per ciò stesso, surrettiziamente diseducato e indotto a dimenticare o a ignorare che qualsiasi paese è cementato, nella sua stessa ragion d’essere, da criteri generali di etica e di legalità, nonché da una rete di relazioni e di interesse collettivi, entro la cui cornice possono trovare efficace salvaguardia anche le legittime esigenze e aspettative del singolo.

La trama delle prebende, delle elargizioni, delle concessioni più o meno disinvolte e talora confinanti con l’illegalità appare la scorciatoia migliore per una strategia da marketing del consenso, che è diventato una priorità di tutto rilievo all’indomani dell’approvazione del decreto legge 29/01/2024, n° 7, convertito nella legge 25/03/2024, n° 38, in cui, all’art. 4, si prevede, per i sindaci dei comuni con un numero di abitanti inferiore ai 5000, la possibilità di essere rieletti senza limitazioni di scadenze temporali.

È di intuitiva evidenza che chi, come succede a Minori, ha detenuto la potestà amministrativa nel corso dei tre mandati quinquennali, che costituivano il limite fissato dalle previgenti disposizioni legislative, sulla carta fruisce, allo stato, delle condizioni per rimanere in sella vita natural durante.

Tutto, dunque, dev’essere indirizzato verso la perpetuazione indefinita di una nomenklatura e di una premiership, che assumono, per dirla con i filosofi medioevali, una valenza “sub specie aeternitatis“. Ne fa fede, con folgorante realismo, la dichiarazione, resa dal governatore regionale Vincenzo De Luca pochi giorni prima del varo del succitato decreto legge e riportata dal quotidiano “la Repubblica” il 14/01/2024: “Noi non abbiamo recepito la norma nazionale. Da quando la recepiremo, scatta il blocco dei due mandati. Andremo avanti nei secoli dei secoli.” In questa stessa ottica, la principale carica pubblica, in una località ammontante a un totale di abitanti inferiore alle 5000 unità, viene inseguita, con persistente accanimento, non come un servizio da rendere, ma come un dominio da moltiplicare.

Lo aveva già intuito uno scrittore acuto come Luciano Bianciardi con questa affermazione esplicitata nel romanzo “Vita agra” del 1962: La politica ha cessato di essere da molto tempo scienza del buon governo ed è diventata, invece, l’arte della conquista e della conservazione del potere.”

Accettare passivamente un simile aberrante convincimento significa correre il rischio, nei confronti dell’elettorato, della responsabilità di un pernicioso abbaglio, il cui potenziale distruttivo è sempre più marcato e incombente col trascorrere degli anni e con la conseguente progressiva narcosi delle coscienze delle generazioni che avanzano.

Il comune buon senso e la semplice logica inducono inevitabilmente a pensare che non è lecito amministrare mostrando, nei fatti, un pervicace attaccamento alla poltrona, come l’ostrica al guscio, e dando spazio, nel gestire anche materie poco rilevanti, alla brama di dominare e di vincere senza cambiare nulla, secondo l’ormai proverbiale espressione tratta dal capolavoro narrativo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa “Il Gattopardo”.

Non è lecito amministrare attraverso un’impalcatura tentacolare materializzatasi in una onnipresenza invasiva, che ha generato, da un lato, la propagazione di un controllo ramificato e capillare sullo svolgimento della vita minorese in tutte le sua articolazioni e declinazioni e, dall’altro, l’incursione a gamba tesa anche in ambiti di non stretta pertinenza delle istituzioni civili. È questo il frutto di una conclamata convinzione, apertamente espressa, a mo’ di replica a distanza a un’osservazione dello scrivente sul punto, nella seduta consiliare del 17/04/2023: “Metterò il cappello su tutto!”. Emblematica, in proposito, è la trasformazione, avvenuta proprio nell’ultimo decennio, della figura del primo cittadino, che, per l’appunto, dal “primus inter pares” di un tempo non molto lontano, si è mutato in un “dominus” autocratico.

Non è lecito amministrare nel segno di una sorta di concezione proprietaria della cosa pubblica, per cui le più penetranti funzioni legate, nell’attività ordinaria, ai rapporti esterni con la cittadinanza (pratiche di edilizia e sicurezza urbana, uso utilitaristico di spazi di parcheggio, fruizione ad personam di servizi cimiteriali, interventi dovuti su tratti marini e collinari e su aree di particolare rilevanza idrogeologica) si radicano in capo a una sola persona, che ne avoca a sé l’esercizio anche a costo di ridurre a una marginalità residuale le competenze specifiche di uffici e servizi propri dell’apparato burocratico comunale. È un modus operandi che sembra rispecchiare, in piccolo, la formula dell’accentramento statalistico vigente nei nefasti regimi autoritari del passato, in base alla quale tutto deve avvenire nella soggezione a chi è al vertice, nulla al di fuori di essa, nulla contro di essa.

Se, nel secolo XVII, il motto del re di Francia Luigi XIV era “lo Stato sono io”, qui si ha la sensazione della sua trasposizione non troppo dissimulata nell’analogo concetto “il comune sono io”. Eppure, la democrazia ripudia il capo assoluto, come ha scritto l’illustre giurista del secolo scorso Hans Kelsen e, prima di lui, Platone.

Non è lecito amministrare con l’erogazione di soldi pubblici a varie formazioni associative “amiche”, nell’intento non di promuoverne la maturazione civica o di creare sviluppo, ma di accrescere un prestigio e una plausibilità da mettere in vetrina.

Non è lecito amministrare mettendo in piedi una rete inestricabile di diffusi indebiti vantaggi e privilegi, sulle orme di quelle che Enrico Berlinguer, nell’intervista del 28 luglio 1981 su “la Repubblica”, oggi da rileggere attentamente, definiva “macchine di clientele che gestiscono interessi, anche i più disparati, talvolta anche loschi”. In una banale vulgata corrente si ha, purtroppo, facile gioco nel portare avanti un circolo vizioso di “piaceri” in cambio di voti e viceversa, con cui chi manovra le leve gestionali dà libero corso a favoritismi di ogni genere, imbarcando di tutto pur di raccattare numeri sostanziosi per le urne. Non sfuggono a questo baratto, oggettivamente indecoroso, nemmeno profili individuali meritevoli di tutela assoluta, perché, in quanto compagni di strada di ogni uomo e di ogni donna, rientranti in quello che l’art. 32 della Cost. it. sancisce come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, cioè nel diritto alla salute.

Non è lecito amministrare, pertanto, con una bulimia di potere penetrata perfino in aspetti estremamente delicati di vita. Sulla base dell’esercizio della delega assegnata in funzione del buon andamento generale dei servizi sanitari nel comprensorio amalfitano, si punta a soddisfare ricorrenti e urgenti bisogni di ricovero e cura non senza farne uno strumento di condizionamento delle scelte elettorali. La strada è aperta per un indiretto sottile ricatto morale nei confronti di chi versa in situazioni di precarietà e di vulnerabilità, secondo un sistema ben collaudato e dilatato, a livello regionale, fino ad eclatanti episodi di corruzione puniti con la misura sanzionatoria della sospensione dall’esercizio della professione medica ai danni di un esponente politico vicino al governatore campano, come riferito dal quotidiano “Il Mattino” del 13 marzo u.s..

Aiutare chi è nella malattia e nella sofferenza è un dovere di solidarietà per chiunque, non un trofeo da sbandierare ai fini dell’asservimento di soggetti deboli che, per i noti disservizi della sanità pubblica, sono posti, il più delle volte (c’è da inorridire soltanto a riferirlo!) per preordinate cause di forza maggiore, nella dolorosa condizione di affidarsi a un manto protettivo che ne sminuisce la libertà e ne offende la dignità. “La dignità è uguale per tutti” – come ha affermato di recente il Papa – “sicchè, se si ferisce la dignità di uno solo, si umilia la dignità di tutti”. Quel che accade a Minori nel campo dell’assistenza ospedaliera è una sorta di codice totalitario, che insidia la civitas umana e giuridica, con tutto il carico di ingiustizie e di discriminazioni verso quanti non intendono rimanere in uno stato di perenne sudditanza e verso quanti da tempo sono in lista di attesa. Francesco Carnelutti ha scritto che “un diritto che può essere esercitato, solo se viene concesso dall’alto come un grazioso regalo, si risolve nella negazione del diritto stesso”.

A riprova delle umiliazioni, che il complesso di questi e altri consimili atti del maggior azionista di riferimento politico in loco porta con sé, è comunemente palpabile una spirale di silenzio, unita alla riluttanza dei più ad esporsi nel libero dibattito delle idee e nella distinzione delle posizioni, a causa di un ambiente dove dissentire è percepito come pericoloso e dove non è infondato il timore di ritorsioni , con gravi contraccolpi sulla stessa tenuta democratica del paese. È tutto un recinto ben presidiato da una miriade di micropoteri, emanazione del macropotere dispiegato, quasi sempre a beneficio di pochi, da uno solo, che dispone di molti oracoli al suo servizio, mentre chi non è allineato finisce nella lista dei reprobi, quando non addirittura è colpito, a ragion veduta, dallo stigma sociale di un’ etichettatura paralizzante, condita per lo più da epiteti infamanti come “odiatore politico”, “odiatore social”, “nemico del popolo”.

Il popolo minorese sente scottare sulla sua pelle, in modo sempre più bruciante, livelli di decadimento mai visti dal dopoguerra ad oggi. L’appuntamento del 9 giugno p.v. deve segnare, allora, uno spartiacque di decisiva portata tra il ripiegamento su una supina  acquiescenza e lo slancio verso aspirazioni di alta caratura, tra il comodo appagamento di una comfort zone e la spinta a un ritrovato orgoglio di identità e civiltà, tra la tendenza a navigare a vista o sotto costa e la disponibilità a prendere il largo per solcare il mare aperto, tra l’assoggettamento perpetuo a un monarca elettivo, con un orizzonte infausto soprattutto per i giovani, e il respiro qualificante del dialogo finalizzato a un confronto anche scomodo e a una giusta valorizzazione dei talenti di tutti, tra la rassegnazione a un destino di sottomissione e la pratica di una schietta cultura democratica, tra il grosso equivoco nel gabellare come segnale di progresso ciò che è soltanto indice di regressione e una nobile tensione ideale verso il meglio, tra le vaghe attese legate a visioni statiche e malcerte e le salde certezze di un presente proiettato, nel solco dei migliori lasciti del passato, su un futuro dinamico e vivificato dal soffio vitale dei valori dello spirito.

Di sicuro, davanti all’avvertita necessità di una classe dirigente veramente rinnovata e pronta a impegnarsi con generosa dedizione nella palestra della polis, il voto non sarà ridotto a una finzione.

redazione
http://www.quotidianocostiera.it
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