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24 agosto 1135: i Ravellesi sconfiggono i Pisani ma cadono due anni dopo

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di EMILIANO AMATO

Il giorno di Natale del 1130, nel Duomo di Palermo, Ruggero II, nipote di Roberto il Guiscardo, si fece proclamare re di Sicilia «Rex Italiae et Siciliae» dall’antipapa Anacleto. I ‘bellicosi’ Amalfitani riconobbero da subito la sua autorità ma pretesero di mantenere una certa autonomia, cioè di governarsi ed esercitare la giustizia con leggi proprie.

All’indomani dell’annessione delle città al nuovo regno d’Italia, Ruggero mantenne distinto e separato il governo di Amalfi e Ravello, ponendo ad ognuno dei due uno stratega, un governatore dipendente direttamente dal re, che esercitasse la giustizia civile e criminale. In pratica nessuna autonomia locale con il re che ordinò addirittura la consegna delle chiavi delle rispettive fortezze. Fu dunque che gli Amalfitani si ribellarono a tale sottomissione; questo atteggiamento venne interpretato come vero e proprio atto di insurrezione contro il sovrano.

Allora Ruggero diede ordine di assediare il territorio amalfitano sia da mare che attraverso le montagne, dove erano erette inespugnabili fortezze, il «fortissimum castrum» di Tramonti e il castello di Fratta di Ravello, oltre che le fortezze di Scala, di Pogerola e di pino in Lettere, obbligati ad arrendersi. In questo modo Ruggero diventava padrone di tutte le terre di cui era stato investito dall’antipapa Anacleto.

Di questa situazione ne approfittarono i Pisani, che miravano a sottrarre ad Amalfi il dominio marittimo del mediterraneo. Nonostante nel 1126 le due Repubbliche marinare avessero stipulato una convenzione commerciale per cui le navi amalfitane potevano liberamente frequentare il porto toscano, i Pisani si allearono con Roberto, principe di Capua, che era insorto per strappare la signoria di Ruggero, tornato a Palermo per la morte della moglie Elvira e creduto morto per il troppo dolore.

Il 24 agosto del 1135, di primo mattino, un cospicuo numero di galee pisane piombò fulmineamente su Amalfi, impadronendosi delle navi ormeggiate nel porto, saccheggiando e incendiando la città. Gli invasori distrussero finanche copie di importanti pergamene, codici e atti pubblici. In quel saccheggio furono prese anche le famose Pendette, dove erano compilati i volumi delle leggi emanate dall’imperatore Giustiniano, che gli Amalfitani avevano probabilmente acquistato a Costantinopoli.

I Pisani attaccarono poi anche Ravello che oppose strenua resistenza dalla fortezza di Fratta (i cui ruderi sono ancora visibili), situata sulla schiena del Monte Brusara. Ruggero, che intanto combatteva contro Roberto nell’assedio di Nocera, come ebbe notizia dell’invasione di Ravello corse «per incogniti sentieri», attraversando le montagne e il Valico di Chiunzi, piombando con le sue milizie alle spalle dei Pisani, che duramente sconfisse grazie all’ausilio delle truppe ravellesi.

La disfatta fu un duro colpo per i Pisani che persero circa un migliaio di uomini; alcuni si salvarono dandosi alla fuga e prendendo il largo a bordo delle loro navi, altri furono fatti prigionieri dai soldati ravellesi.

«La costruzione del fortilizio di Fratta sul Monte Brusara tra il 1131 e il 1135 è testimoniata dalla coeva fonte di Alessandro abate di Telese. Questi, insieme al cronista pisano Berardo Maragone, descrive anche la prodigiosa resistenza del sistema Scala Maggiore – Fratta, che permise il sopraggiungere dei 7000 uomini del re Ruggero da Aversa e la conseguente sonora sconfitta dei militi pisani, i quali furono schiacciati tra la barriera muraria delle fortificazioni e le truppe normanne» spiega lo storico amalfitano Giuseppe Gargano.

Una grande vittoria, questa che per Ravello fu il preludio alla decadenza.

Infatti due anni dopo, nel mese di luglio del 1137, i Pisani fecero ritorno nelle acque della Costa con una flotta ben più agguerrita, composta da circa cento navi. Dopo aver conquistato Ischia e Sorrento la sola potenza di quell’armata costrinse gli Amalfitani ad una resa immediata, seguita dalla consegna di una grossa somma di danaro come riscatto. Nonostante ciò gli invasori saccheggiarono la città, ‘spogliandola’ di ogni ricchezza e, non contenti , depredarono anche i centri di Atrani, Minori e Maiori, che si assoggettarono pacificamente.

Non la stessa sorte toccò a Ravello: le truppe pisane, memori della terribile disfatta subita due anni prima, con accanita ferocia la posero a sacco e fuoco per ben tre giorni consecutivi, distruggendo la borgata Atturina (una prosecuzione del castello di Fratta, sulla schiena del Monte Brusara).
Molti abitanti, perfino delle donne, furono fatti prigionieri.

Quella tremenda disfatta compromise seriamente anche e soprattutto l’attività commerciale. Dopo di allora i nostri navigatori e mercanti non poterono più conservare l’importanza, quasi esclusiva,che avevano tenuto nel Mediterraneo. Il campo di azione si spostò più direttamente sulle coste della Puglia e della Sicilia, ove si registrerà una cospicua presenza ravellese. Proprio grazie a Ruggero, che per gratificare diversi nobili di Ravello per la fedeltà e i servizi prestatigli, quali i Bove, i Rogadeo, i Pironti, i Castaldo ed altri, assegnò loro vari posti in Puglia e in Sicilia.

«L’eco dell’assalto alla città di Ravello – rivela lo storico e archivista Salvatore Amato – era ancora vivo in un diploma imperiale del 1155, con il quale l’imperatore Federico I, nel confermare alla città di Pisa il privilegio della zecca, ricordava l’impresa dell’esercito pisano che aveva distrutto una città situata presso Amalfi, “cui Rabelio nomen est”. L’invasione pisana non risparmiò neanche le testimonianze documentarie, per le quali si nota una grossa lacuna per gli anni 1134-1138. Lo testimonia, fra gli altri, il caso del cittadino ravellese Orso de lu Plano, che nel 1142 non poteva presentare la carta notarile di possesso della sua proprietà perché venne distrutta quando Ravello “fuit capta ab ipsi Pisani”».

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