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La Domenica in Albis e il Precetto Pasquale

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di DONATO SARNO

Ci sono parole che, dopo essere state per lunghissimo tempo adoperate e conosciute da tutti, finiscono, per il mutarsi delle circostanze, col divenire meno utilizzate, andare progressivamente in desuetudine e, di conseguenza, essere non più universalmente note. Così è avvenuto per il termine precetto pasquale, il cui significato, fino ad alcuni decenni or sono ben chiaro anche ai meno istruiti, oggi risulta a diverse persone, specie tra le nuove generazioni, addirittura ignoto.

Il termine precetto pasquale trae origine da una disposizione del IV Concilio Lateranense, celebrato sotto il pontificato di Innocenzo III nel 1215: essa stabilì che tutti i fedeli cristiani, sia maschi sia femmine (“omnis utriusque sexus fidelis”), eccettuati esclusivamente i bambini non ancora in età di ragione, sono tenuti a confessarsi almeno una volta all’anno (“saltem semel in anno) ed a comunicarsi con riverenza (“reverenter) per lo meno a Pasqua (“ad minus in Pascha). La disposizione, che mirava ad assicurare un minimo di generale frequenza ai Sacramenti della Confessione e della Comunione, entrambi indispensabili per la salute delle anime, introdusse quindi un vero e proprio obbligo, il cui adempimento doveva essere accertato dai parroci, giacché ogni fedele doveva confessarsi solo nella propria parrocchia e solo davanti al proprio parroco o suo sostituto autorizzato e doveva ricevere l’Eucaristia solo nella propria parrocchia e solo dal proprio parroco o suo sostituto autorizzato. In caso di accertata inottemperanza all’obbligo senza giustificato motivo, la stessa disposizione comminò, a titolo di sanzione, il divieto per il fedele di entrare in chiesa e la sua privazione della sepoltura ecclesiastica, infliggendo due punizioni avvertite come particolarmente gravi in un’epoca in cui tutti erano fortemente credenti. Essendo l’obbligo (in latino praeceptum) strettamente legato alla Pasqua, solennità fondante del Cristianesimo, ad esso fu ben presto data la denominazione di precetto pasquale.Bisognava però chiarire ufficialmente, a scanso di possibili equivoci, cosa si intendesse per Pasqua e a ciò provvide nel XV secolo Eugenio IV, il quale, recependo l’opinione dei canonisti, con la costituzione Fide Digna stabilì che per Pasqua si intendesse non solo il giorno vero e proprio della Pasqua, ma anche gli otto giorni precedenti e gli otto giorni seguenti ad essa. Quindi il fedele adempiva il precetto pasquale comunicandosi in uno dei giorni ricompresi in tale arco di tempo, cioè dalla Domenica delle Palme sino alla Domenica dopo Pasqua (cd. Domenica in albis), dopo essersi però prima confessato (solitamente durante la Quaresima), il tutto nella propria parrocchia, non considerandosi altrimenti il precetto stesso adempiuto. Era peraltro possibile, con particolari disposizioni aventi comunque carattere eccezionale e valenza territoriale limitata, estendere il detto arco temporale anche ad altri giorni: ad esempio, nella Arcidiocesi di Napoli il termine fu prorogato fino all’Ascensione.

Il Concilio di Trento (1545 – 1563) confermò nuovamente e solennemente la disposizione del IV Concilio Lateranense, colpendo con l’anatema quanti negassero la legittimità del precetto pasquale. Inoltre sia il Concilio di Trento sia le successive disposizioni, generali e locali, chiesero ai parroci di essere assai vigili nel verificarne l’osservanza e nel segnalarne eventuali casi di trasgressione. Si elaborò pertanto un sistema assai semplice ed al contempo assai ferreo ed efficace, in grado di assicurare il controllo su tutta la popolazione: il parroco consegnava a ciascun parrocchiano tenuto al precetto pasquale, durante la benedizione delle case o subito dopo che egli si fosse confessato, un biglietto(chiamato spesso “bollettino”), in cui erano scritti il suo nome e la famiglia di sua appartenenza, quindi, quando il parrocchiano in ginocchio si comunicava, riconsegnava il biglietto; confrontando i nomi sui biglietti ritirati con i nomi di tutti i parrocchiani segnati in appositi libri, detti Status animarum, il parroco agevolmente veniva a sapere se tutti avessero adempiuto al precetto pasqualeovvero chi fossero con precisione i trasgressori, definiti “inconfessi”. Quando si riscontravano trasgressori, iniziava nei loro confronti un procedimento, articolato in più fasi, tutte finalizzate a stimolarne la, sia pur tardiva, conversione. Già la Domenica in albis essi erano verbalmente ammoniti in chiesa; se persistevano nell’inosservanza, aveva luogo prima un secondo ammonimento ufficiale “per via di cedoloni”, ossia affiggendo alla porta della chiesa un cartellone recante i loro nomi, con la precisazione che dal quel momento essi non avrebbero più potuto fare ingresso in chiesa e che in caso di morte senza manifesti segni di penitenza sarebbero stati altresì privati della sepoltura ecclesiastica, e quindi le suddette sanzioni venivano giudizialmente dichiarate. Invero i casi di inosservanza al precetto pasquale, in un contesto profondamente cristiano, erano rari ed anche gli inconfessi accertati, già con la prima ammonizione o una volta affissi i cedoloni, vistisi screditati dall’opinione pubblica e temendo i divini castighi, si pentivano e si accostavano ai Sacramenti; laddove peraltro questi avessero persistito anche negli anni seguenti nell’inosservanza del precetto pasquale, l’autorità ecclesiastica poteva chiedere l’intervento coercitivo dell’autorità statale, che, in base alla legislazione dell’epoca, era tenuta a prestare ausilio alla Chiesa ed essa stessa imponeva l’osservanza del precetto all’interno delle proprie strutture quale requisito di ammissione e/o permanenza (esercito, collegi, università etc.).

Sull’osservanza del precetto pasquale i parroci erano di solito attenti, essendo tenuti comunque a relazionare in merito al proprio Vescovo. Poteva peraltro a volte capitare che qualche parroco, per negligenza o, più spesso, per timore, non provvedesse all’ammonizione e/o all’affissione dei cedoloni, specie quando i trasgressori erano personaggi potenti ed in vista, per cui i Vescovi dovevano evitare che ciò accadesse e quelli più zelanti erano assai attenti a controllare l’operato dei parroci; famoso è il caso di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che da Vescovo di Sant’Agata dei Goti dal 1762 al 1775, essendo “gelosissimo dell’esatto adempimento del precetto pasquale”, da lui visto come efficace strumento “per far ravvedere i peccatori de’ peccati”, raccomandava ed ordinava di procedere contro gli inconfessi per riportarli sulla retta via, senza aver remore o operare trattamenti di riguardo neppure se si fosse trattato di baroni o nobili di chiara fama.

Nello stesso periodo in Costa d’Amalfi, dove il precetto pasquale veniva generalmente osservato, l’Arcivescovo Antonio Puoti, nel Sinodo celebrato nel 1771, raccomandava comunque ai parroci di essere sempre attenti ed opporsi “fraudibus hominumqueastutiis” (alle frodi ed alle astuzie degli uomini) volte ad aggirare il rispetto del divieto ed a segnalare “quos huic SacrosanctoPraecepto non satisfecisse repererint” (coloro che essi avessero rinvenuto inadempienti a questo Sacrosanto Precetto), così da permettergli di provvedere “eorum spirituali saluti opportunisremediis” (alla loro salute spirituale con gli opportuni rimedi).

La puntuale verifica del rispetto del precetto pasquale effettuata tramite i biglietti e i cedoloni si intensificò proprio nella seconda metà del Settecento, quando il diffondersi della “incredulità” legata al pensiero illuminista francese allarmò le autorità ecclesiastiche, per poi non essere più effettuata dopo l’Unità d’Italia. La legislazione del nuovo Regno, improntata al principiodella separazione tra Stato e Chiesa, rese infatti non più condannabile la trasgressione al precetto stesso, anzi apertamente propugnata, con la compiacenza del Governo, dai cd. “liberi pensatori mediante i discorsi e la stampa. Non venne però meno l’insistenza delle autorità ecclesiastiche sul precetto pasquale, che continuò pertanto ad essere rispettato da quasi tutta la popolazione; non a caso tutti i catechismi, fino a quello di San Pio X del 1905, ricordavano che, tra i precetti della Chiesa, la cui trasgressione costituisce peccato mortale, vi era il seguente: “Confessarsi almeno una volta l’anno, e comunicarsi alla Pasqua di Resurrezione ciascuno alla propria parrocchia”.

Fu solo nella seconda metà del XX secolo che il numero dei non adempienti al precetto pasquale crebbe in maniera sempre più elevata, complici l’avviato processo di secolarizzazione e la confusione dottrinale negli anni del postconcilio; oggi si confessano sempre meno persone e in non poche chiese sono spariti finanche i confessionali, tanto che di recente l’attuale Pontefice ha dovuto richiamare i sacerdoti a non trascurare tale Sacramento. Il precetto pasquale, fino ad alcuni anni or sono praticato in tutte le scolaresche e in tutti i corpi militari, sta gradualmente scomparendo e nella stessa catechesi esso, benché tuttora vigente, non di rado viene dimenticato, al punto che oggi molti, anche se più o meno praticanti, non solo ignorano gli antichi bollettini e gli antichi cedoloni, ma non sanno neanche che esiste il precetto pasquale.

Ricordare pertanto la storia del precetto pasquale e le ragioni poste a suo fondamento significa recuperare la memoria di un istituto che ha profondamente inciso sul tessuto sociale per innumerevoli generazioni e che, per chi crede, oltre che un obbligo, rappresenta, in quanto motivo di conversione ed espressione della Pasqua, il trionfo del Bene sul Male, così come Cristo, risorgendo, ha trionfato sul peccato e sulla morte.

redazione
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