16.1 C
Amalfi

Dalla Costa d’Amalfi all’Ucraina: la nostra Pasqua tra bombe e disperazione

ultima modifica

Share post:

spot_imgspot_imgspot_img

di EMILIANO AMATO

Un anno. Un anno esatto. Eppure quello che ho visto è così impresso nella mente e nel cuore che mi sembra ieri. E nello stesso tempo mi sembra sia passata un’eternità. Fa così la memoria quando impatta con immagini forti, emozioni insostenibili. E ineffabili.

Erano già passati due mesi da quando il popolo ucraino era stato colpito dall’incubo della guerra. Precisamente il 15 aprile: Padre Enzo Fortunato manifestò la ferma volontà di trascorrere la Pasqua di resurrezione in quelle terre martoriate. A organizzare il viaggio ci pensò Andrea Villaricca, reperendo coperte, medicinali e generi di prima necessità in ogni paese della Costiera Amalfitana. Con un camion dell’Humanitas di Salerno partimmo dalla Costiera alla volta di Leopoli. Viaggiammo per tutta la notte, uscimmo a Trieste per poi attraversare la Slovenia e l’Ungheria. Raccontai quell’esperienza attraverso l’AGI (Agenzia Giornalistica Italia).

Mi appare tutto davanti agli occhi e, se li chiudo, e ripercorro il mio viaggio dell’anima fotogramma per fotogramma. Il navigatore segnava trecentoventotto chilometri per Leopoli. Cinquantasei per Budapest. Era l’alba della pianura magiara di un Venerdì Santo. Faceva ancora molto freddo a Leopoli, soprattutto di notte, ci dissero quelli che ci attendono. Il nostro piccolo convoglio si muoveva lungo la E579 nei pressi di Ofeherto, carico di generi di prima necessità, frutto di donazioni spontanee e del sostegno della Comunità di Sant’Egidio e di Auxilium. Circa 400 coperte, vestiario, specie per bambini, soluzioni fisiologiche, siringhe, aghi cannula per gli accessi venosi, disinfettanti, mascherine chirurgiche, prodotti per l’igiene personale, omogeneizzati, pannolini, biscotti e merendine, pasta, scatolame, telefoni cellulari, passeggini e anche giochi per alleviare, almeno in parte, le ferite della guerra.


La mattina del 16 aprile, finalmente raggiungiamo la frontiera, a Zahony, ultimo lembo di terra d’Europa. Ai controlli, i militari ungheresi pretesero un inventario dettagliato di ogni prodotto contenuto all’interno del mezzo stracarico. Tutto il carico, completato anche last minute prima della partenza, non risultava catalogato. Padre Enzo chiese ai militari se la fiscalità poteva evitabile almeno per gli aiuti umanitari. Ma nessuno sconto: per proseguire bisogna necessariamente fare la conta del carico e certificare. E intanto si scorgevano persone a piedi, con poche valigie, che attraversano la frontiera, sia in entrata che in uscita. Erano soltanto donne, tristi e preoccupate a giudicare dai volti. Dopo oltre un’ora riuscimmo a ottenere il lasciapassare e subito accedemmo al varco ucraino. “È fatta”, pensammo: e invece anche qui controlli rigidissimi: non bastò il logo dell’Humanitas sul furgone, il carico di aiuti umanitari, le buone intenzioni, la tonaca di padre Enzo, a evitare minuziose ispezioni. Gli ucraini temevano infiltrazioni, spie, non potevano permettersi leggerezze, ne andava della sicurezza di tutta la nazione, ci spiegarono. Arrivò mezzogiorno e faceva molto caldo (il termometro segnava 20 gradi). Intanto c’erano lunghe code di auto in uscita alle sbarre. Solo donne e bambini potevano lasciare il paese, gli uomini no: dovevano offrire il proprio contributo alla nazione e imbracciare le armi se richiesto. Se ne andò un’altra ora: vietato fare foto e video, ma qualche scatto riusciamo a catturarlo. Nei miei occhi, però, flash strazianti, che si stamparono direttamente nella mia mente e nel mio cuore, sconvolto dalla disperazione che aleggiava in ogni dove.
Ci rimettiamo in viaggio: la prima città dell’Ucraina è Chop, e mancavano più di quattro ore per Leopoli. Le strade gruviera misero a dura prova i pneumatici e le sospensioni del furgone stracarico. Sembrava davvero di essere in un altro mondo perché vedevi auto e mezzi vetusti ancora in circolazione e ai bordi delle carreggiate case in legno abbandonate. Uno scenario spettrale, forse anche perché cominciò a piovere e la temperatura a calare vertiginosamente man mano che si attraversavano i tornanti di montagna. Dovevamo fare rifornimento di carburante ma nessuna stazione voleva fornirci gasolio. Serviva per i residenti e in caso di necessità per i mezzi militari. Ma noi eravamo lì per portare iuto a quella povera gente e dovevamo arrivare a Leopoli. A un check point ci chiedono i documenti: i passaporti italiani e il logo dell’Humanias sono garanzia per noi e per loro. Andrea scende, consente il controllo del carico e chiede la cortesia di poter fare gasolio.

Partigiani e militari alla barriera comprendendo le nostre buone intenzioni, ci scortarono presso il distributore più vicino. “Sono italiani, amici” disse un militare al titolare della pompa che finalmente ci serve. Così potemmo rimetterci in cammino. Dopo 32 ore di viaggio, eccoci arrivati a Leopoli. Nuovo stop al check point d’ingresso alla città. Non vogliono che realizziamo immagini filmate (potrebbero essere studiate dai russi per localizzare le postazioni), spiego di essere un giornalista, vogliono vedere il tesserino. Ci lasciano passare, ma tassativamente no foto, no video.

Accolti al convento di Sant’Antonio (uno dei 5 in Ucraina dei minori francescani) da Padre Nicola Orach, amico di Padre Enzo. La stanchezza prese il sopravvento: cena frugale con i frati e a letto. Bisognava riposare. Le sirene suonano alle 2 e alle 5 circa, per un’ora. Sono attacchi russi. La paura, quella vera, s’impossessa di noi. Bombardata la stazione a poca distanza dal convento. Per fortuna la contraerea ucraina riuscì a intercettare i missili e a sventare l’attacco.


Estremamente provati da questa notte di ansia e terrore, il giorno seguente andammo a consegnare il nostro carico di aiuti alla Comunità di Sant’Egidio. Yuriy Linfans, che ne è responsabile in Ucraina, si trovava anche lui a Leopoli, avendo lasciato Kiev con la famiglia per sicurezza subito dopo i primi bombardamenti. Avevano aperto un grande magazzino sull’anello anulare di Leopoli dove si raccoglievano grandi carichi, per poi distribuirli agli anziani negli istituti, ai senza fissa dimora, e nei campi profughi. La rete di solidarietà faceva la sua parte. A Leopoli la popolazione era aumentata del 30% e i profughi premevano su tutto il sistema delle città dove mancava tutto o quasi.

Padre Nicola, ci racconta che, aiutati dai frati in Polonia e Romania, smistano cibo, coperte, il necessario per sopravvivere senza corrente e acqua calda, nelle zone più colpite della regione. Anche la statua dell’Immacolata Concezione in piazza era coperta da impalcature per proteggere un simbolo della città, come tutte le statue di Leopoli. Le chiese erano piene, anche per la benedizione dei doni pasquali, una tradizione della settimana santa. Il gasolio era razionato, era possibile averlo, ma non più di 20 litri, solo se si era cittadini ucraini oppure in missione umanitaria (come noi). Il furgone, che aveva viaggiato stracarico, affrontando fossi e dossi, necessitava si un controllo a braccetti, sospensioni e pneumatici prima di ripartire. Da Padre Nicola ci facemmo consigliare un meccanico di fiducia (a dire il vero non molto rassicurante per il luogo in cui operava) il quale ci garantì che con quel mezzo saremmo ritornati a casa.


Il sabato pomeriggio ci spostammo a Terebovlija, cittadina di 15mila abitanti a 160 chilometri a Sud-Est di Leopoli, nella regione di Ternopil. Nel consegnare al sindaco Olec Prodan generi di prima necessità, guardammo pensosi una scuola riallestita per l’arrivo di altri profughi. Faceva ancora molto freddo. Il sindaco ci ospita in municipio, nella sala di rappresentanza e con l’ausilio di un traduttore interloquisce con padre Enzo.

In una palazzina di sei piani, c’erano rifugiati ammassati in condizioni di fortuna, persino in cinque in una stanza con un solo letto. Ma i bambini giocavano felici e ci guardavano con curiosità. Poi il sindaco e i suoi collaboratori ci invitarono per una sosta al pub per rifocillarci prima della partenza; c’era luce, calore, buon cibo nel locale e questa normalità contrastava con il buio totale che trovammo appena usciti. La pubblica illuminazione disattivata, luci spente nelle case. Non bisognava offrire nessun segnale di vita ai nemici. Noi, però, dovevamo andare.

Ci rimettemmo in viaggio alle 22.30 e il navigatore, impostato con l’aiuto dei residenti, ci portò lungo sentieri sperduti, evitando strade che potevano essere presidiate dai russi. I Partigiani difendevano paesi isolati presidiandone le strade, quasi tutte private dell’asfalto, un espediente per far rallentare i mezzi degli invasori ma che mette a dura prova braccetti e gomme del furgone. Forse è stato questo il momento in cui abbiamo rischiato di più: viaggiavamo da soli nel buio. Andrea spingeva, non vedevamo l’ora di ritrovare la luce, la civiltà. Improvvisamente un faro accecante ci viene puntato contro, Andrea frena improvvisamente. E’ un nuovo check point di partigiani, letteralmente mimetizzato. Ci puntano contro i Kalashnikov: l’alta velocità con la quale viaggiavamo li aveva allertati. Alzano la voce, ci fanno scendere per controllare che non avessimo armi e soprattutto che all’interno della stiva (letteralmente vuota) non vi fossero persone pronte a lasciare la nazione. Anche stavolta i passaporti italiani e “l’Humanitas” ci salvarono. Mostrammo loro foto video della nostra missione umanitaria appena conclusa e ci credettero.

Alle 4 raggiungemmo finalmente la frontiera ucraina con l’Ungheria, e padre Enzo decide di salutare l’alba della Resurrezione di Cristo con un momento di preghiera nel punto in cui, all’andata, c’erano code di gente disperata.


E’ il 17 aprile. La Pasqua di padre Enzo e del piccolo convoglio di aiuti dell’Humanitas partito dalla costa di Amalfi è una candela accesa nell’abitacolo del camion alle quattro di mattina.
Dopo aver vissuto il Venerdì Santo con i ‘poveri cristi’, innocenti, spogliati di tutto e flagellati nella loro dignità di popolo, padre Enzo sente urgente il bisogno di celebrare, nel nostro furgone, immersi nell’oscurità della notte, una Pasqua speciale, di preghiera intensa, diretta a un popolo martoriato da una guerra sacrilega.
La candela del cruscotto tremola mentre chiediamo che non ci sia più guerra. Ci rimettemmo in cammino e di nuovo problemi al confine nella parte ungherese. Un militare sbuffa: “Soliti italiani”. Lo dice perché Andrea Villaricca, ha con sé un paio di pacchetti di sigarette in più rispetto al consentito. Un pretesto per offenderci: non reagimmo e li buttiamo via.

“Dopo aver raccolto le lacrime di tanta gente, toccato con mano il dolore nei volti impietriti delle persone, visto la grande dignità di chi non vuole arrendersi all’insensata violenza, noi non ci arrendiamo, la pace continueremo a scriverla nonostante i venti contrari”: in queste parole di padre Enzo si condensa anche il mio pensiero. Un pezzo del mio cuore l’ho lasciato laggiù, tra le strade dissestate, i palazzi sventrati, le manine infreddolite dei bambini. Negli orrori di questa guerra.

spot_imgspot_img

articoli correlati

Ztl Costa d’Amalfi, Imma Vietri (FdI): «Piero De Luca ha mentito a sindaci e cittadini»

«Sono davvero paradossali le dichiarazioni dell'onorevole Piero De Luca. Prima vota contro la riforma del nuovo Codice della...

Minori, fa discutere la nuova pensilina installata sul lungomare

di EMILIANO AMATO Minori, si sa, è città del gusto. Un titolo che però sembra essere limitato al solo...

A Napoli festa per i 100 anni del ‘signor’ Marcello James, storico allenatore di canottaggio

Grande festa quest’oggi al Reale Yacht Club Canottieri Savoia per i 100 anni di Marcello James, storico allenatore...

Maiori, il Rotary Club fa rivivere il “Gran Ballo a Palazzo dei Marchesi Mezzacapo”

Far rivivere i siti monumentali locali con scene d' altri tempi in costumi d' epoca, musiche, colori e...