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L’escursione sui monti di Scala trasformatasi in incubo: «Grazie ad Antonio che ci ha soccorso nella notte»

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Spiacevole disavventura sabato scorso per tre escursionisti napoletani sulle vette di Santa Maria dei Monti, a Scala.

Giuseppe Cimminiello, insieme ai figli Giovanni di 21 anni ed Emanuele di 12, avevano organizzato un’escursione nel cuore della Valle delle Ferriere,  partendo da Scala (località Pontone). Solo grazie all’intervento di Antonio Bonaventura, responsabile del rifugio di Santa Maria dei Monti, una presenza preziosa sulle nostre montagne, sia per la qualità dell’ospitalità che per sicurezza garantite.

E’ proprio Cimminiello a raccontarci la sua odissea:

Premetto che io e Giovanni siamo amanti del trekking e in costiera siamo venuti tantissime volte dedicandoci a diversi percorsi, mentre per Emanuele era la prima volta. Tutti e tre insieme abbiamo condiviso due escursioni tra le Dolomiti e sabato volevamo fargli visitare per la prima volta le bellezze della costiera portandolo con noi tra gli affascinanti scorci che offre la Valle. Dopo aver visitato l’oasi con la vecchia ferriera e le cascate, avendo programmato di completare un circuito ad anello, abbiamo proseguito in direzione dell’alta via dei Monti Lattari, raggiungendo in successione Ammarata, Monte Rotondo e Piano del Ceraso. Siamo arrivati esattamente vicino al Rifugio di Santa Maria dei Monti in perfetto orario secondo il nostro programma, in quanto da lì si scendeva a Scala – località Campidoglio – con un sentiero, il 351, percorribile in circa un’ ora e mezza;  aggiungendo una mezz’ora per raggiungere la località Pontone, saremmo arrivati in macchina al massimo entro le 18,15. Poiché eravamo a conoscenza di uno spettacolare punto panoramico, il belvedere Mustaculo, per il quale si accedeva proprio deviando in un sentiero che si trovava qualche centinaio di metri prima del rifugio, siamo restati a discutere se fare o meno questo piccolo fuori programma. Convinti che si sarebbe trattato di un aggravio di una quarantina di minuti e sapendo che il sole sarebbe tramontato intorno alle 18,45,  abbiamo optato per partire in quella direzione. Proprio in quel momento abbiamo visto Antonio Bonaventura, responsabile del rifugio di Santa Maria dei Monti, al quale abbiamo chiesto conferma se il sentiero era quello giusto; ci ha risposto che bastava non perdere di vista una recinzione che si allineava sempre verso quel sentiero, che a tratti non era ben visibile. Effettivamente la recinzione c’era e l’abbiamo seguita tranquillamente fino a quando da un punto in poi era interrotta. Ci siamo addentrati fra felci e sterpaglie orientandoci a occhio e dopo poco abbiamo trovato quella che sembrava il proseguimento di quella recinzione, credendo purtroppo erroneamente che fosse la direzione da seguire. Da lì abbiamo incontrato altre tre interruzioni e ogni volta ci avventuravamo in cerca della parte mancante. Senza rendercene conto stavamo allontanandoci sempre più. Quando abbiamo realizzato che avevamo perso la cognizione del tempo e dell’orientamento eravamo nei pressi di un pendio fra arbusti e nessun sentiero visibile, inoltre senza avere la minima idea di come tornare indietro. Sapendo che dal punto panoramico si poteva scendere fino a Scala con un sentiero di difficoltà EE, per escursionisti esperti, abbiamo provato a trovare la strada giusta per tentare la discesa, così da guadagnare anche tempo, piuttosto che cercare di tornare indietro perdendone altro, ma dopo svariati tentativi ci siamo allontanati ancora di più. A un certo punto abbiamo notato una tubazione d’acqua che dall’alto si dirigeva giù, così abbiamo supposto che seguirla ci avrebbe portati fino al paese. Con estrema difficoltà, cercando di trovare un percorso fattibile anche a zig zag, scendendo l’abbiamo seguita fino a quando si interrompeva bruscamente. Davanti a noi non c’era nessuna via percorribile che andasse in basso, solamente un abbozzo in orizzontale che lambiva il versante di quel pendio, così abbiamo seguito alla cieca una linea dritta che alla fine ci ha portati ad uno sperone roccioso che speravamo fosse un punto dal quale poter finalmente scendere, ma ci siamo ritrovati al Belvedere Mustaculo… Erano ormai quasi le 19,00! Quel piccolo fuori programma di soli quaranta minuti ci era costato all’incirca tre ore… Il mio telefonino era quasi scarico e la linea era stata praticamente assente per quasi tutta la giornata. Nell’ultimo messaggio che avevo inviato, informavo mia moglie che saremmo arrivati intorno alle 20,00.

Intanto, in quella condizione, per accelerare il tempo, abbiamo tentato la discesa per escursionisti esperti,  ovvero fra percorsi esposti, pericolosi e per niente visibili, pieni di rovi e sterpaglie. Ma subito abbiamo desistito e con estrema fatica abbiamo intrapreso la via che ci avrebbe fatti ritornare al rifugio. Completamente al buio e usando il telefono di mio figlio come torcia, dopo un’estenuante e tormentata traversata e dopo quasi un’ora e mezza, abbiamo raggiunto il Rifugio, pieni di graffi e escoriazioni. Le nostre speranze sono scemate quando ci siamo resi conto che era chiuso. La linea non c’era e da lì occorreva scendere per quel sentiero che ci avrebbe condotti a Scala Campidoglio, ma in quelle condizioni era quasi arduo tentare: il buio lo rendeva quasi invisibile. Restando sempre nei dintorni, ci siamo allontanati in cerca di linea per telefonare: tra le foto nella galleria abbiamo trovato uno scorcio con la segnaletica CAI e  l’insegna del Rifugio di Santa Maria dei Monti con il numero di cellulare! Non riuscendo a telefonare e spinti dall’urgenza ci siamo introdotti nella proprietà sperando che suonasse qualche allarme, allertando così qualcuno, ma l’unica cosa che abbiamo ottenuto è stata un po’ di luce che si accendeva dalle fotocellule al nostro passaggio. Il telefono era assente e puntualmente non appena compariva una tacchetta non durava che pochi istanti, ma dopo decine di minuti infruttuosi finalmente è partita la chiamata: pochi secondi entro i quali siamo riusciti a dire “siamo al Rifugio ma è chiuso, in una situazione critica, con un bambino di 12 anni impaurito e dobbiamo arrivare a Scala…” Poi la chiamata si interrompe e la linea sparisce del tutto. Eravamo tentati di trovare e approcciare il sentiero 351 che ci faceva scendere a questo punto, anche perché non avevamo alternative e non appena ci siamo allontanati, dopo un breve gracchiare, abbiamo sentito la voce di Antonio, il direttore del Rifugio: veniva da una telecamera posta lateralmente che inquadrava la porta principale dove c’era la fotocellula che attivava la luce. Ci siamo diretti proprio lì e, illuminati, subito ci ha riconosciuti.: ” siete i ragazzi di prima? Che è successo?” Gli abbiamo spiegato tutto e chiesto aiuto, lui si è subito prodigato nonostante avesse un dolore alla schiena, ma ci ha informati che sarebbe venuto con il quad e che avrebbe potuto trasportare un passeggero alla volta. In ogni caso avremmo comunque dovuto percorrere diverse centinaia di metri di un altro sentiero lì vicino, il 353, composto inizialmente da rocce abbozzate a scalini, oltre i quali il quad non poteva salire. Inizialmente a me la proposta non attraeva, mentre per i miei figli era allettante: così facendo avremmo impiegato tanto tempo e ho deciso quindi di rifiutare l’offerta e di provare a scendere con il sentiero iniziale che portava a Scala, il 351. Semmai durante il tragitto avessimo avuto la linea avrei provato a chiamare il soccorso alpino o la guardia forestale.  Così ci siamo allontanati e con estrema difficoltà abbiamo iniziato la discesa, resa praticamente cieca dal buio: la luce del telefonino non era in grado di farci notare la strada giusta né tantomeno i segni rossi del CAI. Dopo diverse decine di minuti avevamo guadagnato solo pochi metri, ma soprattutto si udivano  rumori di rami spezzati e presenze intorno a noi… Nell’ombra gironzolavano molto probabilmente cinghiali selvatici o altro. Mi hanno abbandonato sicurezza e lucidità e perdendo l’equilibrio sono ruzzolato a terra procurandomi un dolore forte al ginocchio sinistro. A quel punto mi ha assalito il panico, ho realizzato che la troppa fiducia nei miei mezzi era stata nemica, ho capito che avevo dato troppa importanza alla mia esperienza, credendo erroneamente di essere in grado di poter gestire quello situazione. “Saliamo sù immediatamente” ho detto, mentre strada facendo cercavo di trovare almeno una tacchetta di linea. Il destino in quel preciso istante, però , ci ha  rigirato la faccia e il telefono ha iniziato a squillare: era Antonio, che ci avvisava che aveva contattato il papà con la Jeep e che sarebbero venuti in soccorso, ma prima che cadesse la linea ci ha consigliato di ritornare al rifugio, sotto la telecamera. Arrivati lì con ritrovato vigore, alla luce della fotocellula, Antonio ci ha riferito la password del WiFi del Rifugio e, una volta collegati, abbiamo potuto parlare tranquillamente con chiamate e messaggi WhatsApp. Ci ha praticamente spiegato il percorso da prendere in direzione del quale avremmo incontrato la statua della Madonna, oltre cui c’era l’ingresso del sentiero 353. Avremmo dovuto scendere diverse centinaia di metri per incontrarci con lui, poi con il quad ci avrebbe portato giù uno alla volta, prima il bambino, a poche  centinaia di metri di distanza, dove ci attendeva la Jeep che poi ci avrebbe accompagnato fino a Pontone. Ricevute tutte le direttive ci siamo incamminati e dopo un quarto d’ora eravamo all’ingresso del sentiero oltre la Madonna. Abbiamo mandato un messaggio a Antonio visto che in quel punto c’era campo e, successivamente ne abbiamo mandati altri per tenerlo costantemente aggiornato. Il mio telefonino era praticamente morto, mentre quello di mio figlio Giovanni a meno del 20%. Ho dovuto informare mia moglie che saremmo arrivati più tardi perché a pochi minuti dall’arrivo in macchina mi sono slogato una caviglia e non riuscivo a camminare, così gentilmente un signore ci ha fatto entrare a casa   offrendoci ospitalità, per ripartire appena sarei stato in grado. Scendere quei gradoni irregolari è stata una estrema fatica perché quell’unica e piccola fonte di luce non ci consentiva di camminare spediti, facendoci avanzare lentamente. Lo spazio era stretto e ognuno di noi faceva ombra all’altro; eravamo costretti ad illuminare il gradino per ogni singolo passaggio, per poi puntarlo al successivo; oltretutto io avevo un dolore lancinante al ginocchio. Ma dopo una mezz’ora estenuante abbiamo intravisto i fari di un mezzo. Abbiamo urlato insieme e in tutta risposta Antonio ha iniziato a suonare il clacson: “Sono qui, da questa parte, ora ci sono io”! Il percorso non è stato per niente agevole nonostante fossimo motorizzati, sobbalzi e scossoni ci spingevano a destra e sinistra, ma era tanta la felicità e la gioia che ci sembrava di scivolare sul velluto. La Jeep ci ha portati fino a un casolare di loro proprietà, dopodiché Antonio ci ha caricati in una Panda – per muoverci meglio ha spiegato – , poiché in paese c’era la festa della castagna e un casino da matti. La stessa festa dove c’erano la moglie e il figlio (o i figli) ad aspettarlo, mentre lui ha trascorso la serata cercando di organizzare un recupero che per noi, me in primis, ha avuto il sapore di un vero e proprio salvataggio.

redazione
http://www.quotidianocostiera.it
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