14.3 C
Amalfi

Flotte Marinare e Repubblicane in azione nel Mediterraneo medievale

ultima modifica

Share post:

spot_imgspot_imgspot_img

di Giuseppe Gargano

“Tra Maometto e Carlo Magno”: è il titolo di un celebre best seller di Henry Pirenne, famoso medievalista della prima parte del secolo appena trascorso.

Lo storico belga retrodatava l’esordio dell’Età di Mezzo di qualche secolo, collocandola tra il VII e l’VIII, con l’avvento di Maometto e della sua rivoluzione islamica, nonchè di Carlo Magno, che faceva rinascere un impero in Occidente, romano di nome ma germanico di fatto.

Allora il Mar Mediterraneo, divenuto, già dai tempi di Socrate, uno stagno solcato senza soluzione di continuità da miriadi di bianche vele, come farfalle, era dominato dalla potente marineria bizantina. Ma gli arabi rubarono ai romani d’Oriente i segreti della navigazione, imitando le loro navi nelle forme e adottandone i nomi naturalmente islamizzati. Così agli agrati, ai palischermi, alle acazie, al κάραβος dei bizantini si opponevano in concorrenza mercantile il qārib, la markab, il qunbār, la khinzira, la shahtūra degli arabi; così le flotte di Bisanzio navigavano in στολιος (latino stolium) e quelle arabe in ustūl, cioè in convogli mercantili associati a navi armate da guerra.

A quel punto Bisanzio non era più la padrona dei mari: una nuova formidabile concorrente scendeva in acqua, assaporando la gioia della vittoria nella sua “guerra santa”, che le consentì la conquista della Siria, della costa siro-palestinese, dell’Africa settentrionale, della Spagna visigota. L’Islam aveva costituito non un impero, bensì califfati ed emirati, a volte alleati a volte contrastanti tra di loro.

La marineria araba fu forse l’inventrice della vela latina o “alla trina”, cioè quel sistema velico triangolare che favorì lo sfruttamento anche del vento di bolina. Scrittori del rinascimento italico sono, però, concordi nell’affermare che tale innovazione fu dovuta agli amalfitani del IX secolo: “novum genus velificandi quod latinum vocant ad Amalphitanis ut fertur excogitatum”. Quanto ci sia di vero in quest’affermazione, non ci è dato di sapere; ad ogni modo, di certo gli arabi usarono una vela trapezoidale, una via di mezzo tra quella quadra classica e la trina medievale.

Bisanzio non rimase inerte: la sua risposta fu immediata. I suoi dromoni affrontarono vittoriosamente una numerosa flotta araba, proveniente dall’Egitto, nel 747 al largo di Cipro: dall’aspra battaglia si salvarono soltanto tre navi musulmane. Così tornavano in possesso dell’impero d’Oriente la stessa isola e la Siria. Avendo perduto le principali riserve di legname, necessario per la ricostruzione della flotta, gli arabi dell’Africa settentrionale si trovarono a mal partito. Pertanto, prendevano il sopravvento nel Mediterraneo occidentale le flotte musulmane della Spagna, che avevano intanto permesso la conquista delle Baleari, della Corsica e della Sardegna. Si accingevano, in aggiunta, ad impossessarsi pure della Sicilia, per poi puntare sul continente attraverso il Meridione d’Italia.

La vittoria bizantina alla battaglia di Cipro fu dovuta all’impiego di una nuova invenzione, il “fuoco greco”. Si trattava di una miscela incendiaria a base di pece, salnitro, zolfo, nafta, calce viva, la cui composizione era nota soltanto all’imperatore e ad alcuni dignitari di corte; era, perciò, tenuta segreta e la sua divulgazione punita con la morte. La miscela era contenuta in sifones di terracotta collegati a tubi di rame; veniva, quindi, spruzzata mediante la pressione del piede o, raccolta in vasi di creta, lanciata dalle petriere.

Le palle di fuoco colpivano le navi nemiche, incendiandole; non potevano essere spente con l’acqua, in quanto essa contribuiva ad alimentare l’incendio. Gli arabi, comunque, riuscirono in seguito ad ottenere la formula di quel fuoco micidiale e a riprodurlo: infatti, una lettera commerciale della Gheniza (emporio) del Cairo databile al X secolo riporta la funzione del naffat (da naft=petrolio), soldato specializzato nel fuoco greco.

Amalfi e Gaeta nella prima parte del IX secolo, nel periodo in cui stavano emancipandosi dalla dipendenza napoletana, si distinsero per alcune vittoriose battaglie navali combattute a difesa della Cristianità nelle acque del Tirreno, destinate a rimanere quale imperituro ricordo nella Storia.

Il battesimo delle acque per le giovani flotte militari amalfitane e gaetane avvenne esattamente 1200 anni fa, cioè nei primi mesi dell’812. Allora l’emiro aghlabita di Kairuan aveva allestito una grande spedizione contro l’Italia, sostenuto da navi arabe spagnole, al fine di islamizzare le contrade meridionali. Questa era la prima impresa marinara saracena dopo la grave disfatta del 747.

Gli imperatori Carlo Magno e Michele I di Bisanzio si preoccupavano molto della situazione italiana, prontamente informati dal papa Leone III, per cui presto decisero di adottare misure difensive per la parte meridionale della penisola. Così da Bisanzio giunse una flotta in aiuto delle dipendenze nominali italiche, su richiesta dello stratega di Siracusa. Il comandante delle navi greche chiese collaborazione al duca di Napoli. Costui non aiutò direttamente la spedizione anti-araba, probabilmente perchè i napoletani erano allora impegnati, come i veneziani, in attività di commercio della legna proprio verso le coste nord-africane. Pertanto, si limitò ad inviare navi di Amalfi e di Gaeta, due città-castra da lui dipendenti.

La battaglia navale, che fu cruenta e con alterne vicende, si svolse al largo delle isole Egadi; alla fine la flotta araba fu completamente annientata e le due città marinare campane festeggiarono vittoriosamente il battesimo del mare.
Gli amalfitani dovettero prender parte a quell’impresa mediante le venti navi, sicuramente dromoni, che avevano costruito per conto di Bisanzio due anni prima. Il dromone era una nave da guerra a due piani, nei quali erano impiegati cento rematori, cinquanta per livello, disposti a coppie sui banchi, manovrando ciascuna coppia un solo remo.
La fornitura di legna ai saraceni dell’Africa del Nord, anche da parte degli amalfitani, fece riprendere la loro marineria, per cui essi riuscirono, entro l’827, ad occupare l’intera Sicilia. Inoltre, le lotte fra napoletani e longobardi dei decenni successivi aprirono la strada per l’infiltrazione di saraceni in Campania, perlomeno come truppe ausiliarie al servizio ora degli uni ora degli altri. Poi la situazione si fece eccessivamente grave e pericolosa per l’incolumità di tutte le comunità cristiane della regione. Infatti, nell’846 alcune navi arabe attaccarono l’isola di Ponza; allora il duca di Napoli decise di rompere ogni indugio e di passare al contrattacco.

Ancora una volta navi non napoletane, ma di stretti alleati o di dipendenti del ducato, scesero in campo contro gli incursori: si trattava delle flotte di Amalfi, Gaeta e Sorrento, che subito riuscirono a conseguire qualche successo. Ma i saraceni sbarcarono ad Ostia e saccheggiarono i villaggi posti al di fuori delle mura di Roma, sconfiggendo il contingente di guerrieri franchi inviati dall’imperatore a sostegno della città. Una squadra navale napoletana e amalfitana conduceva, comunque, in salvo a Gaeta i superstiti. In tal modo il duca di Napoli riusciva a proteggere il porto della città e ad evitare lo sbarco dei saraceni.

Tre anni dopo una potente flotta musulmana tentò ancora una volta di saccheggiare Roma; ma del suo imminente arrivo dalla Sardegna furono in tempo avvisate le città campane. Così accorsero nel porto di Ostia navi napoletane, amalfitane e gaetane, pronte a battersi fino all’ultimo in difesa della Città Eterna. Dopo aver partecipato ad una solenne celebrazione e ricevuto la benedizione del papa Leone IV, la flotta cristiana, al comando di Cesario console, figlio del duca di Napoli, riportò una splendida vittoria, aiutata anche da una provvidenziale tempesta. In tal modo Amalfi rendeva solenne il suo primo decennio d’autonomia.

In quegli anni i bizantini ideavano una nuova nave da guerra, la galea (da γαλεος=squalo), dalla forma allungata (rapporto larghezza al centro dello scafo-lunghezza totale=1/8) e dal basso pescaggio, pertanto facilmente manovrabile, particolarmente rapida e capace di sbarcare truppe direttamente sulle spiagge.

Allora gli amalfitani utilizzavano le sagene, imbarcazioni adatte al blitz, spinte da vela latina e con l’albero maestro spostato più avanti.
Flotte amalfitane contribuivano, insieme a quelle di Gaeta, alla riconquista bizantina della Siria tra il 968 e il 969, come conferma Liutprando da Cremona, per cui i loro ammiragli furono insigniti di titoli aulici.

Flotte amalfitane, tra 969 e 971, favorivano l’affermazione dei Fatimidi nella conquista del califfato d’Egitto, per cui i mercanti della città campana venivano esentati dalle tasse nei porti egiziani e le autorità del ducato romanico-bizantino ricevevano l’autorizzazione a coniare tarì d’oro.

Gli arabi, intanto, costruivano proprie galee, le qatā’i: flotte di razziatori, costituite da 17 di queste navi, salpavano dalle coste nordafricane verso l’Italia, dalla Spagna ne giungevano in numero di 27 e dall’Algeria addirittura 40. Incursioni, razzie, minacce continue queste orde perpetuavano ai danni di numerose città costiere del Tirreno, molte delle quali dovevano pagare per non essere saccheggiate. Anche Amalfi, allo scorrere del X secolo, fu impegnata a fronteggiare improvvisi pericoli saraceni, cercando, nel contempo, di non guastare le ottime e vantaggiose relazioni commerciali stabilite con la Sicilia, l’Africa e la Spagna.

Al contrario, i pisani scelsero la via dello scontro armato irriducibile con i musulmani. Tra tutti gli episodi in cui la flotta pisana si battè vittoriosamente per ripulire il Tirreno dalle pericolose incursioni saracene tre sono quelli che maggiormente segnarono una svolta decisiva nel capovolgimento della situazione e nell’affermazione della città toscana.

Il primo in ordine cronologico è da ascrivere al 1005, quando i pisani risposero affermativamente all’appello del pontefice per la difesa delle coste italiche contro i saraceni. La squadra delle galee pisane sbarcò molti combattenti presso Reggio Calabria, riuscendo ad occuparne il porto e a porvi l’assedio. L’intervento e la conseguente affermazione pisana impedirono, in tal modo, l’invasione araba della regione e fecero diventare Pisa “protettrice della Cristianità”.

In secondo luogo, le flotte pisana e genovese liberavano gradualmente la Sardegna e la Corsica, respingendo i tentativi di revanche musulmana partiti dalla Spagna.
Pisa fu costantemente decisa a perseguire l’annientamento totale delle postazioni saracene del Tirreno. Per raggiungere tale obiettivo, i pisani si allearono con Roberto il Guiscardo e lo aiutarono nella conquista della Sicilia. Nel 1063 addirittura le navi pisane forzarono il porto di Palermo, mentre le truppe sbarcate a terra assediavano la città.
La storia tramanda un evento bellico marinaro al quale parteciparono pisani, genovesi e amalfitani. L’alleanza tra queste tre potenze marinare aveva uno scopo preciso: eliminare un pericolo comune. Si trattava di annientare il covo dei pirati che, infestando il Mediterraneo meridionale, creavano seri danni alla navigazione mercantile: la base da cui partivano le incursioni fu individuata nella città nord-africana di al-Mahdia, dove operava il feroce Timino.

Spesso le navi mercantili delle repubbliche marinare dovevano destreggiarsi abilmente per evitare di essere catturate. Inoltre, gli amalfitani organizzavano convogli di 8, 11 o 20 imbarcazioni, appoggiate da navi armate, navigando in conserva; lo stesso facevano i veneziani con la muda. Gabriele D’Annunzio celebra l’evento con La Canzone del Sacramento (Merope 1911), immaginando anche la partecipazione di squadre navali gaetane e salernitane: << Tenean quelli di Genova il sinistro/ corno con navi e saettìe, l’opposto/ le genti di Campania unite in Cristo./ Rosse le prore come tinte in mosto/ avea Salerno, d’indaco Gaeta,/ d’oro Amalfi alla Vergine d’agosto >>. Ad onor del vero, la flotta amalfitana che intervenne nell’impresa non era affatto quella della repubblica, bensì si trattava di navi private del ricco e potente mercante amalfitano Pantaleone de Comite Maurone, console dell’impero d’ Oriente, il quale conosceva bene la topografia di al-Mahdia, per cui facilitò l’ingresso delle truppe cristiane tra il luglio e l’agosto 1087 e la distruzione del covo piratico. Il Carmen in Victoriam Pisanorum scritto per l’occasione esalta con tali versi il valore dell’amalfitano: << Et refulsit inter istos cum parte exercitus/ Pantaleo Malfitanus, inter Graecos hypatus,/ cuius fortis et astuti potenti astutia/ est confusa maledicti Timini versutia >>.

Quella vittoriosa impresa rappresentava per le nascenti repubbliche marinare di Pisa e Genova una sorta di prova generale per la crociata indetta nove anni più tardi da Urbano II, alla quale presero parte con numerose galee. In quella storica spedizione armata, dalle enigmatiche e controverse questioni, “Bellum iustum o Iustum in bello?”, il presule pisano Dagoberto divenne patriarca gerosolimitano e il contributo genovese fu determinante per la “liberazione” di Gerusalemme, grazie all’astuzia di Guglielmo Embriaco, il 15 luglio 1099.

IL CORTEO DI AMALFI

Domenica 26 aprile 1002: squilli di trombe, rulli di timpani, suoni di campane a festa, tappeti orientali, damaschi e drappi di seta di Aleppo pendenti dalle finestre arcuate delle bianche case diffuse a grappoli sulle pendici delle colline degradanti nell’azzurro mare ove “Amalfi bagna i suoi piedi nell’afa”; domus elevate fino a cinque piani, turrite e con poche e strette saettiere, ma ricche all’interno di marmoree colonne e di capitelli, mostrano aristocratici vessilli con aquile, leoni, croci di varia foggia.
E’ festa grande nella Capitale del ducato romanico-bizantino: Sergio, il giovane primogenito del Dei providentia dux Giovanni I detto “Petrella” e della ducissa Regale, figlia di un alto dignitario della corte principesca di Salerno, prende in moglie la longobarda Maria, dalle lunghe trecce dorate e dagli occhi cerulei, figlia di Pandolfo II, principe di Capua e di Benevento. Una coppia spensierata e felice: Sergio diciannovenne, Maria diciassettenne. Gli sposi sono affiancati da loro coetanei cavalieri e dame della corte ducale amalfitana.
” Volta anch’ella a Oriente, in quell’istesso/ mattin scendea dai pallidi d’ulivi/ Amalfitani clivi/ una gagliarda gioventude: l’arme/ in su la spalla; il carme/ in su le labbra; l’onda/ di fronte immensa; e la baldanza in core “: un lungo corteo, rivisitato dall’indimenticabile scenografo Roberto Scielzo nel 1955, sfila per le vie della città marinara. Lo compongono il vecchio austero magnificentissimus Dei gratia dux, imperialis patricius, anthypatus et vestis Mansone I, avo dello sposo, i giudici togati di nero suoi collaboratori, il console del mare, i consoli della repubblica provenienti, per l’occasione, dalle colonie virtuali d’oltremare, il legato del califfo d’Egitto con tafetà e zimarra, il vessillifero che reca il gonfalone della repubblica, circondato dai valletti, gli alfieri con la bandiera caricata della banda rossa in memoria della romanità di Amalfi (Descendit ex patribus Romanorum), i cavalieri “cui la lunga spada era misura”, gli arcieri difensori dei castelli, i marinai delle galee insieme agli instancabili remerii.

Quasi su tutti i costumi campeggia la croce ottagona, evidente sui tarì d’oro e rievocante le Beatitudini secondo il Vangelo di Matteo o “la rosa dei venti amalfitana già fatta croce irsuta d’otto punte” secondo un’antica tradizione.

Il giorno seguente il giovane sposo sarà incoronato Dei providentia dux nella cappella palatina del S. Salvatore de Birecto di Atrani e sarà annotato nella cronaca cittadina col nome di Sergius III. Intanto il geografo Ibn Havqal, giunto da Bagdad alcuni anni prima, aveva registrato: << E poi c’è Amalfi, la più prospera città di Longobardìa, la più nobile per le sue origini, la più illustre per le sue condizioni, la più ricca ed opulenta >>.

IL CORTEO DI GENOVA

Una flotta di dodici galee approda nel porto di Genova, esattamente cento anni dopo il matrimonio del rampollo amalfitano: sbarcano armati stanchi e provati da tante battaglie, ma nel contempo soddisfatti e colmi di orgoglio. Le loro cottardiche bianche crociate di rosso fanno intendere che provengono dalla Terra Santa, preceduti dalla bandiera di S. Giorgio. “Arremba, San Zorzo!” riecheggia ancora nelle loro orecchie come secco e risoluto comando del loro ammiraglio.

Uno stuolo di capitani li segue, rendendo ancor più forte il senso dichiaratamente militare dell’evento. Recano sulle loro spalle decenni e decenni di duri confronti sul mare e sulla terraferma con gli arabi di Spagna, di Sardegna, di Corsica: sono orgogliosi di aver ripulito il Mediterraneo occidentale dalle squadre navali saracene, sempre pronte al saccheggio e al ricatto.

Un personaggio alto e robusto, corazzato e con l’elmo in mano, evidenziato da uno scudo d’oro caricato da tre leoni di nero come un antesignano dell’anglo Riccardo Cuor di Leone, appare quale personaggio centrale di un corteo trionfale.
E’ Guglielmo Embriaco, detto “Testadimaglio”, uno dei principali esponenti della Compagna genovese appena resasi autonoma dalle ingerenze imperiali; è il vero conquistatore di Gerusalemme, colui che per primo è entrato con suo fratello Primo di Castello e con i suoi soldati dalla Porta di Sion nella Città Santa liberata il 15 luglio del 1099, grazie allo stratagemma della galea trasformata in torre d’assalto. Lo segue, come un’ombra, Caffaro di Caschifellone, l’annalista che ha il compito di annotare tutto nella sua cronaca.

I nobili genovesi che vengono dopo di loro sfoggiano vesti sfarzose provenienti dai mercati di Antiochia, dove è appena nata la colonia di Genova grazie al principe normanno Boemondo, dall’insediamento mercantile di Galata a Bisanzio, da Caffa nel profondo del Mar Nero.

Gli occhi del popolo festante, rappresentato da donne, monaci, contadini, pescatori, marinai, sono, però, concentrati non tanto sull’aspetto militare della manifestazione, quanto su di un elemento dal forte significato religioso: un valletto reca su di un cuscino il Sacro Catino dell’Ultima Cena che l’Embriaco ha ritrovato in Palestina e che sarà destinato alla Chiesa di Genova, in quella Palestina dove i Templari sperano inutilmente di rinvenire il Santo Graal, per completare le suppellettili di quel santo Giovedì di quasi undici secoli prima.

IL CORTEO DI PISA

Tre momenti suggestivi della storia di Pisa s’intrecciano in un corteo che avanza come un film in senso diacronico e sincronico lungo le vie, le piazze, i lungarni, il lungomare delle quattro città marinare d’Italia. La bella popolana Kinzica trionfa sul suo cavallo e vive il suo momento di gloria per un’impresa che mai avrebbe pensato di poter compiere: di notte, nel 1004, diede l’allarme che salvò la sua patria dagli arabi, i quali, approfittando dell’assenza della flotta impegnata nelle Baleari, risalivano l’Arno per piegare la loro invincibile ed irriducibile nemica.

I consoli della prima fase politica della repubblica autonoma, iniziata ufficialmente nel 1070, rievocano le imprese crociate e la formazione delle colonie pisane d’oltremare, tra cui quella di Bisanzio sul Corno d’Oro, nata per intermediazione degli amalfitani nel 1111.
Avanzano fanti e balestrieri, guidati dal sergente, che si batterono sulle galee contro genovesi e veneziani, a Durazzo (1108), al Giglio (1241), alla Meloria (1284) e che parteciparono alla cruenta battaglia di Fratte, castello di Ravello, dove, nel 1135, furono stretti in una morsa senza scampo tra normanni e amalfitani, dopo aver saccheggiato le città di Amalfi ed Atrani.

Tutte le imprese marinare dei pisani furono coronate dalla vittoria, perchè combattute sempre il 6 agosto, festività di S. Sisto; in particolare, a seguito della conquista delle Baleari, avvenuta nel 1115, fu trasportata nella chiesa di quel primo Santo patrono di Pisa la lapide mortuaria dell’emiro Al Murtada. Purtroppo anche la clamorosa sconfitta nella battaglia della Meloria contro i genovesi avvenne nel giorno di S. Sisto.

La figura del podestà, che avanza a cavallo, segna una nuova fase amministrativa per la repubblica toscana, indicata anche dalla presenza di membri dei consigli e di priori delle arti.

Quindi sopraggiunge la fase popolare, rappresentata dal capitano del popolo, anch’egli a cavallo e vestito di solida armatura.
La marineria è ben individuata con ammiragli e consoli del mare, patroni, comiti, marinai.

Il gonfalone con la croce bianca pomettata in campo rosso segna il periodo di massimo splendore di quella sorta di comune marinaro, coincidente con il XIII secolo. Intanto ad essa associata, l’aquila germanica nera in campo d’oro domina il gruppo pisano: la croce e l’aquila sono simboli di rilevanti ruoli svolti in Occidente così come in Oriente.

IL CORTEO DI VENEZIA

Anno 1489: una caravella attracca alla banchina posta di fronte al monumentale palazzo ducale di Venezia. Condotta su di una portantina da otto schiavoni mori, sbarca Caterina Corner, detta “Cornaro”, appartenente ad una potente e nobilissima stirpe veneziana, ora vedova di Giacomo da Lusignano, dal quale ha ereditato il regno di Cipro; segue dietro di lei la delegazione cipriota.

Le corre incontro, procedendo dal palazzo pubblico, il serenissimo doge Agostino Barbarigo sotto l’umbrella, con il corno che copre il suo capo, il manto di ermellino sugli omeri, la veste di seta porpora trapunta di arabeschi dorati, tutti simboli della sua gloriosa potestà.

La regina di Cipro attraversa la laguna sul Bucintoro con accanto il doge; di lì a poco ella consegnerà, con atto di abdicazione, anche se a malincuore, l’isola di Cipro alla repubblica marciana, rendendola ancor più potente sui mari. In cambio riceverà la signoria di Asolo, nel cui castello si appresterà ad ospitare vari artisti, tra cui Giorgione e Bembo.

Il gonfalone con lo stendardo assegnato a Venezia dal papa Alessandro III nel 1171 apre un corteo formato dall’oligarchia mercantile dei senatori e dei pregadi, con trombettieri e tamburi che intonano melodie fastose. Il possente apparato marinaro e militare, prodotto nel più celebre arsenale del tempo, è rappresentato dal capitano da mar, l’ammiraglio di quella flotta che contribuirà notevolmente alla storica vittoria di Lepanto del 1571, quella flotta che incuteva timore e riverenza in ogni mare.
Quel capitano è forse l’eroico Francesco Morosini, che tanta fama si guadagnò nell’impresa di Famagosta, oppuro uno dei Bragadin. Gli armati che lo scortano sono nelle fogge militari del Rinascimento, con gli elmi di ferro a punta e le lunghe alabarde.

Spicca su tutti i figuranti l’alato leone di S. Marco, la cui missione pacificatrice nel Mediterraneo è incisa nel cartiglio: ” Pax tibi, Marce, Evangelista meus! “.

redazione
http://www.quotidianocostiera.it
spot_imgspot_img

articoli correlati

Blocco dei fondi, a rischio il Ravello Festival 2024. L’allarme della Fondazione

A causa del blocco dei Fondi Poc della Regione Campania, a rischio il Ravello Festival 2024. L’allarme è...

“Papa Francesco, i bambini e la resurrezione della pace” a Tg1 Dialogo

Dopo l’incontro di Papa Francesco con 6mila bambini e ragazzi delle scuole di pace, storie e testimonianze sul...

Fiera del Libro di Vietri sul Mare, dal 24 al 26 maggio: Regina Schrecker madrina della 3ᵃ edizione

Dopo la giornalista RAI Vittoriana Abate e la giornalista fiorentina Elena Tempestini, quest’anno la top model, stilista, icona...

Verità su galleria Minori-Maiori. Formichelle interrogano sindaco Reale: «A quando esito indagini e variante?»

La verità sulla questione galleria Minori-Maiori. E’ quella che chiede di conoscere il gruppo “Le Formichelle” capitanato da...