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Il coraggio evangelico

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di Francesco Criscuolo*

Ha fatto scalpore l’invettiva, lanciata dal parroco di Ravello domenica scorsa 15 maggio al termine della processione in onore di San Pantaleone.

Le parole pronunciate e i toni usati sono stati chiari, pur senza alcuna calcata durezza, da non lasciare spazio ad equivoci di sorta.

Eppure, ad eccezione della bella testimonianza del dott. Andrea Carretta, le interpretazioni esplicitate via social, forse al di là delle intenzioni di chi le ha formulate, hanno aperto il varco a commenti più o meno irridenti, a polemiche accese, a opinioni contrapposte, che, purtroppo, servono solo a confondere le idee, a legittimare i pregiudizi, a esasperare gli animi.

Anche a fronte di inconfessabili incrostazioni dovute a dicerie strapaesane, purtroppo dure a morire, è necessario ristabilire i termini reali dei fatti accaduti alla luce di qualche modestissima riflessione di carattere generale.

È fin troppo evidente che, in una diffusa visione ispirata al “pensiero debole” o al “pensiero unico”, si rende sempre più stringente l’esigenza di rispettare gli orientamenti e le manifestazioni del “politically correct”, che porta spesso a rifuggire dall’indignazione e ad accettare passivamente le mode socio-culturali dominanti e più o meno distorte. Chi non vi si adegua viene visto come un corpo estraneo o come un soggetto da condannare all’irrilevanza o al previo e sprezzante accantonamento.

Si verifica, così, che chi alza la voce per riaffermare le ragioni alte della verità e della giustizia viene demonizzato, quando non addirittura additato alla pubblica esecrazione.

Ne sono autorevole conferma le pagine bibliche riguardanti profeti come Geremia, Osea, Amos, Ezechiele, che non sono ricorsi a pannicelli caldi o a modalità morbide per un annuncio di salvezza destinato all’uomo di ogni tempo.

Gli studiosi dei testi sacri parlano di “ira teologica” per indicare una sincera, appassionata o anche urlata difesa dei principi più sani, senza paura dell’impopolarità e senza il timore di non riuscire abbastanza “simpatici”.

San Giovanni Battista non rinunciò a gridare contro la pessima condotta morale di Erode, andando incontro alla decapitazione. Padre Cristoforo, nel VI cap. de “I Promessi sposi”, tenne testa con profetica iracondia alle minacce del prepotente don Rodrigo.Chi non ricorda l’arditezza del grido di S. Giovanni Paolo II contro la mafia nella piana di Agrigento, nel maggio 1993?

M. Luther King, in uno storico discorso ai giovani americani, li esortava ad indignarsi per le intollerabili storture e contraddizioni sociali, da cui erano direttamente colpiti, aggiungendo: “Quel che deve inquietare le coscienze non è tanto la cattiveria dei malvagi, quanto il silenzio dei buoni”.

La denuncia, partita con inusitata ma legittima veemenza dal sagrato del Duomo ravellese, si colloca emblematicamente sulla scia delle limpide posizioni assunte da queste figure di elevata caratura morale e spirituale, che hanno obbedito, in piena libertà alla voce dello spirito senza tentennamenti e senza esitazioni.

In essa va ravvisata un’ulteriore non trascurabile motivazione ideale, da ricollegarsi a una vistosa piaga, che costituisce quasi la cifra del tessuto sociale e dei tempi che viviamo.

Siamo ogni giorno di fronte a una cultura che ripudia il senso del limite e che non è temerario porre in diretto rapporto con la crescente secolarizzazione, che investe anche chi si riconosce, almeno sociologicamente, nell’adesione alla dottrina e alla pratica cristiana.

È doloroso constatare, in taluni anche gravitanti nell’orbita di organismi ecclesiali, la caduta di qualsiasi argine e l’assorbimento di concezioni materialistiche correnti in fatto di unità e stabilità della famiglia, di accettazione della vita nascente, di legami inscindibili tra il sacramento del matrimonio e la procreazione, cedimento alla deriva eutanasica, di disinteresse per la rex publica o di compromessi al ribasso con i maneggi  sotterranei o palesi dei poteri politici locali.

In assenza della compenetrazione e integrazione della Fede con il vissuto quotidiano, abbonda la fenomenologia della leggerezza e dell’incoerenza, sicché, come Dostoevskij fa a dire Ivan Karamazov, “tutto è permesso”, tutto è possibile senza alcuna linea di demarcazione tra bene e male, tra giusto e ingiusto.

Diventa possibile anche ingerirsi in questioni di pertinenza non delegabile dell’autorità preposta, assoggettare alla propria volontà le scelte che la stessa autorità, ecclesiale o civile, è tenuta a compiere, con una contestuale assunzione di responsabilità, porre in essere una mancanza di rispetto per l’identità dei ruoli e invadere campi in cui dev’essere salvaguardato, nell’interesse generale, l’esercizio di specifiche competenze, vantare pretese non riconosciute e non riconoscibili neppure in termini di immaginazione. Il decreto conciliare “Apostolicam actuositatem” e l’esortazione apostolica “Christifideles laici” parlano di corresponsabilità, ma non di intercambiabilità tra laici e ministri ordinati nell’azione pastorale.

Abbiamo dimenticato la lezione della moderazione, della medietas, della temperanza, ereditate dalla civiltà greco-romana e nobilitate, nella visione cristiana, dalle virtù teologali e cardinali. Abbiamo dimenticato che l’armonia dell’assetto sociale passa anche attraverso la necessità di capire  quali sono i limiti da non oltrepassare e quali, invece, i giusti confini all’interno dei quali si può costruire una relazione e interagire nella serena dimensione personale e sociale. Abbiamo dimenticato il magistrale monito oraziano: “Ci sono limiti ben precisi, al di qua e al di la dei quali non può sussistere ciò che è retto”(Orazio – Sat.I,1-vss106-107).

Peraltro, lo spazio per un’educazione morale fondata sull’insegnamento del limite si va sempre più restringendo nelle famiglie. L’economista Carlo Calenda, in un interessante libro pubblicato pochi giorni fa, ha scritto che “tra i segnali di fragilità etica della società occidentale ci sono la confusione tra desideri e diritti, l’assenza di moderazione in tanti campi dell’agire pubblico e privato, il rifiuto dei valori della competenza, dell’autorità della buona educazione, la difficoltà ad accettare le categorie morali di obbligo, dovere e gerarchia” (Carlo Calenda – La libertà che non libera – ed. La Nave di Teseo, Milano – Maggio 2022).

La scrittrice Emma Fattorini, in un articolo apparso sull’Osservatore Romano del 14 luglio 2020 e significativamente intitolato “Davvero ne usciremo migliori?”, ha, a sua volta, rilevato che “la richiesta indistinta dei diritti è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni, alimentata quantitativamente da una pletora di rivendicazioni, spesso senza distinzioni e priorità, sostenute dal desiderio individuale, da quella dilatazione della soggettività e della libertà sgangiata dalla responsabilità, per cui ogni desiderio diventa diritto”.

L’invadenza, che ha innescato la reazione forte del parroco don Angelo Antonio Mansi, più che un elemento di disturbo o di provocazione, è espressione di questa distorsione mentale, che purtroppo alligna anche in qualche sacrestia. Quel quidam de populo, che forse in buona fede ha avanzato la richiesta di far suonare le campane all’inizio della processione, rientra, indipendentemente dalla sua volontà, in un clima di pensiero teso a far valere indebite incursioni in materie riservate, in vie esclusiva, a chi ha il munus e il carisma di presiedere le celebrazioni liturgiche e l’intera vita parrocchiale. Si tratta di una spira soffocante, che nuoce a chiunque rivesta una funzione direttiva, specie in ambito ecclesiale, tanto che don Nicola Mammato, all’atto della presa di possesso canonico della Parrocchia di Maiori il 4/09/2020, in tono bonario ma chiaro avvertì i maioresi: “Per cortesia, non ditemi quel che debbo fare!”

Don Angelo, che di certo non è mai stato un pastore codardo nè ha mai ceduto a calcoli di convenienza, non ha inteso tanto colpire una persona, quanto deprecare una mentalità e un costume non compatibili con il Magistero della Chiesa. Sa bene che il Vangelo non può essere ridotto a quel che si aspetta la gente e che non si può dire solo quel che ci si vuole sentir dire.

Egli ha sempre ritenuto suo dovere esporsi con determinazione in ciò in cui altri hanno magari esitato, nell’intento di proporre la fede autentica e mettere in guardia dalle deviazioni, perché l’autenticità cristiana è tale se pone in crisi gli schemi comuni del vivere.

Pertanto, quel che apparentemente può sembrare un gesto clamoroso è soltanto un atto di coraggio evangelico, il cui fine precipuo è stato quello di ricollocare al proprio posto pietre di confine maldestramente spostate.

Onore a lui e alla sua missione sacerdotale!

redazione
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