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Il sarchiapone atranese

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di SIGISMONDO NASTRI

Gli atranesi erano fieri, e lo sono ancora, della festa che organizzano il 22 luglio, nella ricorrenza della protettrice, Santa Maria Maddalena. L’indimenticabile mio ex allievo Michele Buonocore, vigile urbano, ma anche poeta e cultore della storia e delle tradizioni locali, mi recuperò i versi di una antica nenia che il nonno, Leonardo Frasca, amava cantare alla figlioletta Rita (la mamma di Michele): «Che bella festa fanno sti ‘tranise: / dint’ a nu vico astritto, ‘o paraviso. / ‘A festa loro ‘a fanno cu divuzione / e tèneno p’ avvocato ‘o sarchiapone. / Mimì Mimì Mimì / vièstete ampresso si vuo’ venì’ / â chiazza i’ te porto / t’accatto ‘e castagne c’ ‘o gigtegì. / Mimì Mimì Mimì / tutte ll’ingrese stanno a guardà / cu ‘e ‘tranise e c’ ‘a società.»

Gli abitanti degli altri paesi della Costa non erano dello stesso avviso e li sfruculiavano con questa strofetta: «’A campana ca sona / ‘a botta ca ‘ntrona / ‘a banda ca stona… / vì’ che festone!».

Gli atranesi ci tenevano a organizzare la festa più bella: per la ricchezza e la varietà delle luminarie, per la migliore banda musicale (sempre di moda quelle pugliesi e abruzzesi), per la spettacolarità dei fuochi d’artificio. Il sindaco del dopoguerra, Gabriele Di Benedetto, era impegnato in prima persona su questo fronte. Partecipava ai festeggiamenti patronali di Amalfi (27 giugno), di Minori (13 luglio) per un dovere di rappresentanza, ma anche per fare la conta delle bombe da tiro esplose, quelle che aprendosi nel cielo disegnano un intero caleidoscopio. Poi ad Atrani, il 22 luglio, dava disposizioni che ne venisse sparata almeno una in più. Poco gli importava se, il 15 agosto, in questa speciale classifica poteva essere superato da Maiori (non capitava quasi mai), tanto i rapporti tra maioresi e atranesi sono stati sempre ottimi: con l’espressione “è sanghe nuosto” si ribadisce tuttora la saldezza di questo legame, che si riallaccia a un episodio che vide una comunità accorrere in aiuto dell’altra. In tutte le case, nel menù della festa non doveva mancare (chissà se avviene ancora) il sarchiapone, una pietanza tipica locale, che potrà fare storcere il naso, avendo come elemento base la zucca lunga, ma che – fatta come Dio comanda – è piacevolissima.

Il sarchiapone più saporito, si raccontava, lo preparava un notabile del posto, “don” Vittorio Prota, secondo una ricetta di cui era geloso custode. Sulla preparazione, Achille Talarico, medico e gastronomo salernitano, ci dà questa versione, che ritengo attendibile se è vero (ed è vero) quello che l’autore dichiara: le ricette contenute nel suo libro “Gastronomia salernitana di ieri e di oggi” derivano dall’attenzione, maturata fin da ragazzo, a seguire le varie fasi di preparazione e cottura dei cibi, e dalla discussione avviata con familiari, parenti e amici, in prevalenza di sesso femminile, «interpellati per diradare dubbi od incertezze». Talarico frequentava assiduamente la Costiera, dove aveva amici e clienti nella società più agiata. L’imbottitura «consiste in carne triturata e soffritta in sugna; si aggiungono poi: uova battute, in proporzione alla quantità di cannelloni da preparare, formaggio parmigiano (o pecorino) grattugiato, pepe, il sale necessario e, secondo i gusti, qualche aroma o qualche foglia di basilico o di prezzemolo (È preferibile non aggiungere aromi o foglie aromatiche). Imbottiti i cannelloni di zucchetta, si dispongono in file in un grosso ruoto e si soffriggono alquanto in olio o sugna per asciugarli ed insaporirli. Si condiscono, poi, con abbondante sugo di ragù preparato a parte e si passano al forno a calore normale fino a cottura delle zucchette ed alla concentrazione desiderata del sugo. Si può aggiungere, se piace, formaggio e pepe». «Da tener presente – avverte ancora Talarico – che le zucchette, messe al forno, cacciano ancora dell’acqua e che, perciò, il sugo di ragù deve essere piuttosto denso fin da principio, per non avere poi un sugo troppo “lasco” o delle zucchette troppo cotte (“fatte”) che riuscirebbero poco gradite». Ci sono valide ragioni per ritenere che la pietanza sia originaria della Calabria. Leggo, infatti, che le cocuzze longhe, ripiene di carne, «diventano nel Cosentino piatto di ricorrenza per le feste di San Giovanni Battista e della Madonna del Carmine».

Dal libro ‘A Cannarizia, Areablu edizioni-Cava de’ Tirreni, 2017

redazione
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