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Amalfi

Il trionfo di Amalfi nella regata destinata alla storia

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di Giuseppe Gargano

Una dolce brezza di ponente mitigava la calura del dì che volgeva al tramonto, mentre contemplavo un mare blu pastello che sembrava venirmi ai piedi, mi teneva lontano dalla mia Amalfi, in quel momento allietata da clarine e tamburi per l’imminente corteo storico della Regata delle Antiche Repubbliche Marinare d’Italia. Sabato 4 giugno: ero a Gaeta e la sera che stava calando con le sue inarrestabili ombre mi conduceva con mano verso ciò che stava accadendo ad Amalfi. Venivo al riposo del guerriero, dopo aver tenuto una conferenza sulla marineria gaetana medievale associata a quella amalfitana per la ricorrenza del 160° anniversario dell’istituzione della Marina Militare Italiana. E l’immaginazione della mia mente mi riportava al corteo di Genova, che rappresenta la società della città marinara allo scorrere del secolo XI, quando, appena ottenuta l’indipendenza, si avviava all’avventura mediterranea mediante la partecipazione alla I Crociata. Torna vittorioso colui che per primo era entrato a Gerusalemme, permettendo al grosso delle truppe crociate di invaderla e liberarla dai turchi selgiuchidi: Guglielmo Embriaco. E la veloce e fluida penna di Caffaro vergava le avventure del Testadimaglio, segnalando il rinvenimento del Sacro Catino, un piatto d’onice nel quale Cristo e gli Apostoli avevano consumato l’Ultima Cena. La Compagna Communis Ianuensis costituiva il governo della giovane repubblica ligure, retta da sei consoli. In quel tempo la società genovese era composta da due classi emergenti: i mercatores (popolo grasso) e gli artifices (popolo minuto). I loro rappresentanti, artigiani, mercanti e cartari, si costituivano allora in corporazioni.

Segue, nell’immaginario della mia memoria, il corteo di Venezia, congelato al 1489, quando Caterina Cornaro, divenuta per matrimonio regina di Cipro, donava l’isola alla Serenissima, scegliendo in cambio la dolce signoria di Asolo. Guidati dal doge eletto a vita, seguono le magistrature dei poteri esecutivo e legislativo, il Gran Consiglio, la Signorìa, il Senato: il loro numero era così ampio da lasciarci definire democratica l’oligarchia dei nobili mercanti veneziani.

Allegre note musicali annunciano il corteo di Pisa, che rivive l’evoluzione delle magistrature della repubblica, dai consoli del mare, dei mercanti, delle arti con i priori all’avvento del podestà, un dittatore che mirava alla signorìa ma che non vi riusciva perchè mitigato dal senato. Quindi appare il capitano del popolo, l’istituzione che la borghesia pisana opponeva all’aristocrazia capitalistica. In posizione centrale, rigorosamente a cavallo, una figura popolana si mostra nella sua semplice leggiadrìa: è Kinzica de’ Sismondi, l’eroina che salvò la città da un’invasione notturna degli arabi, avvenuta nell’estate del 1004, avvisando in tempo la popolazione, che accorse in armi e rigettò in mare in nemici. Non è leggenda ma tradizione, costruita intorno a un nucleo storico di verità mediante l’immaginario collettivo del popolo. Si tratta di un chiaro caso di antropologia culturale da tenere sempre vivo, poiché, come per Flavio Gioia di Amalfi e il fornaretto di Venezia, rappresenta un simbolo perenne di una nazione.

L’allegria di un matrimonio preannuncia l’apparizione del corteo di Amalfi: è il 26 aprile 1002, il vegliardo magnificentissimus dux Mansone I celebra le nozze tra il nipote Sergio II con la principessa di Capua e Benevento Maria. La coppia festosa gioisce, lontana dagli anni futuri di sconvolgenti e tristi eventi di lotte dinastiche per l’affermazione regionale. Le fogge orientali e variopinte di seta, damasco, broccato sono la testimonianza evidente della “città più prospera di Longobardìa”, “opulenta e popolosa”, abitata da abili navigatori “esperti nel segnalare le vie del mare e del cielo”.

All’alba di domenica 5 giugno mi faccio tempestivamente accompagnare ad Amalfi, per cogliere di sorpresa la città che si è appena svegliata, pronta a vivere l’ultimo atto della regata, come sono pronto anch’io a fornire l’ultimo contributo personale.

E l’ora fatidica giunge alfine: il sorteggio ci assegna l’acqua 1, la più interna, sottoposta alla risacca; seguono Venezia in acqua 2, Genova 3, Pisa 4. Il mio animo per un momento si rattrista ma poi una luce lo rischiara: non è “maretta”, solo corte e basse onde dovute alla normale corrente di sud-ovest. Pisa appare assolutamente debole all’esterno, Genova annaspa tra l’appena visibile moto ondoso. I veneziani sanno che la loro corsìa è la meglio favorita; così attaccano a testa bassa e si avviano in testa. Sapevo che si erano preparati bene e che avrebbero potuto crearci seri problemi. Poi mi sono ricordato dell’affermazione dell’allenatore Lapadula: «La gara la fa l’avversario». Allora comprendo la sua tattica: inseguire l’avversario, tenergli gradualmente testa, facendolo per un po’ illudere e poi sferrare un crescente ma inarrestabile attacco. E così avviene: alla punta del molo foraneo Amalfi e Venezia sono testa a testa, poi il sorpasso, mentre affermo durante la trasmissione televisiva: «Ecco l’attacco di Amalfi!».

Il cavallo alato taglia il traguardo, mentre suoni e grida di giubilo da ogni luogo della costa mi riportano indietro nel tempo, quando gli amalfitani respinsero vittoriosi i normanni. I giovani rematori amalfitani sono stati assaliti dai colleghi veneziani ma non sono stati, come  i loro padri, assoggettati. L’aver fatto omaggio al cavallo alato del restaurato galeone di legno nell’arsenale mi ha portato fortuna.

Dedico alla gioventù amalfitana del corteo e dei remerii del galeone i versi di Aleardo Aleardi: «Volta anch’ella a Oriente, in quell’istesso/ mattin scendea dai pallidi d’ulivi/ Amalfitani clivi/ una gagliarda gioventude: l’arme/ in su la spalla; il carme/ in su le labbra; l’onda/ di fronte immensa; e la baldanza in core».

Foto: Emanuele Anastasio

redazione
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