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La Navigazione Astronomica mediterranea in età classica

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di GIUSEPPE GARGANO

Prima di entrare nel vivo dell’argomento è giusto conoscere l’idea che gli antichi avevano circa la forma della Terra.

Ai tempi di Omero (VIII secolo a.C.) si pensava che essa fosse come un disco rotondo e piatto, circondato dal grande fiume Oceano. Poi, a seguito di varie rilevazioni osservative, ci si rese conto della sfericità del pianeta. Una delle prove della curvatura, e quindi della forma sferica, fu desunta dalla constatazione che, quando una nave si allontanava all’orizzonte, spariva alla vista prima lo scafo e poi gradualmente l’alberatura. Altra prova a sostegno fu l’osservazione della forma a calotta sferica della volta celeste.

Eratostene di Cirene nel III secolo a.C. misurò la circonferenza della sfera terrestre, calcolando quale frazione d’arco di meridiano uguagliava la distanza che intercorreva da Alessandria a Siene (distanza già allora nota) e ottenendo una misurazione di 24662 miglia, praticamente 195 miglia appena più corta di quella effettiva misurata oggi con mezzi più sofisticati. Inoltre, secondo Eratostene, convinto assertore della sfericità della Terra, sarebbe stato possibile, partendo dalla Spagna e navigando sempre verso occidente, giungere alfine in India.

Eraclide Pontico si convinse, poi, che la Terra ruotasse intorno al proprio asse, determinando l’alternarsi del dì e della notte.

Un secolo prima di Eratostene il peripatetico Dicearco approntò una carta del mondo, che fu perfezionata da Ipparco, mediante la collaborazione di vari astronomi, per calcolare la latitudine di molte località. Una misurazione grossolana della longitudine geografica veniva effettuata in occasione delle eclissi di Luna. Sembra, inoltre, che lo stesso Ipparco si fosse accorto del fenomeno della precessione degli equinozi, determinata dal fatto che la Terra, a causa dell’inclinazione del suo asse rispetto al piano dell’orbita, ruoti come una trottola, descrivendo un apparente cono sulla volta celeste in 26000 anni. Ciò fa variare nel tempo la posizione della stella più prossima al polo nord celeste (la così detta “stella polare”). Ipparco calcolò che l’equinozio progrediva di 36 secondi ogni anno (in realtà la progressione equinoziale è di 50”,3757). 

Grazie a queste conoscenze astronomiche, i popoli del Mediterraneo idearono, nell’Antichità, un alquanto efficace sistema di orientamento per la navigazione d’alto mare.

Tra i primi vi furono i Fenici. Essi si orientavano osservando le due Orse, in particolare la Minore, ma senza servirsi della Stella Polare (α Ursae Minoris), perchè in quei tempi remoti, a causa della precessione, essa si trovava lontana dal polo nord celeste; circa 2700 anni fa veniva usato per l’orientamento sul mare dai marinai fenici il triangolo a forma di corno costituito dalle stelle α, β e γ  dell’Orsa Minore. Pertanto, il “Piccolo Carro” divenne nell’antichità classica la costellazione per antonomasia dei Fenici, chiamata per l’appunto, Phoinich dai Greci. Questo sistema di orientamento astronomico fu efficace per la navigazione mediterranea. I Fenici fecero ancor di meglio: prima del X secolo a.C. essi avevano stabilito con le loro navi rotte commerciali che, uscendo dalle “colonne d’Ercole”, si spingevano fino alle isole Cassiteridi (Shetland), nella parte settentrionale della Gran Bretagna, ai confini del mondo di allora, dove ebbero modo di constatare che il crepuscolo si prolungava con notti chiare sino all’alba per due mesi al tempo del solstizio d’estate. Per quella navigazione atlantica i Fenici si servivano del circolo artico, costituito dalle circumpolari che per una data latitudine non tramontano, e in particolare delle stelle η Ursae Majoris e α Bootes (Arturo). Per la latitudine geografica delle isole Cassiteridi il circolo artico (53°) di quell’epoca lontana era centrato intorno alle Orse e delimitato dalle stelle Arturo, Vega, Deneb, Capella e Menkalina.

Altre uscite oltre le colonne d’Ercole di navi fenicie seguirono, invece, rotte meridionali, dirette lungo le coste dell’Africa. Così Annone nel V secolo a.C. si spinse verso le coste atlantiche africane; mentre un secolo prima navi fenicie avevano circumnavigato l’Africa in tre anni di navigazione per conto del faraone egizio Neco II.

I Fenici, riferendosi di giorno al punto dell’orizzonte dove sorgeva il Sole e di notte alle stelle, segnarono vere e proprie “rotte stellari” e furono, pertanto, i primi cultori dell’astronomia nautica. Naturalmente la navigazione avveniva sempre nel periodo estivo, per incontrare il favore delle condizioni metereologiche e dei cieli sereni e, di conseguenza, tenere fisso l’orientamento; d’inverno i cieli spesso nuvolosi avrebbero compromesso seriamente la rotta.

La lezione fenicia fu ben appresa dai Greci sin dalle epoche più antiche. Uno dei primitivi esempi di navigazione astronomica greca riguarda una rotta mediterranea da occidente ad oriente, un esempio letterario epico descritto nell’Odissea. Si tratta della rotta che la ninfa Calipso suggerisce ad Ulisse per favorirgli il viaggio da Ogigia a Itaca, una rotta che indica un percorso da sud-ovest a nord-est, per mantenere il quale l’eroe avrebbe dovuto lasciare l’Orsa sul lato sinistro, tenendo le Pleiadi alla destra e Boote alla sinistra. L’itinerario da seguire si sarebbe attestato sulla latitudine +38°, nel cui circolo artico è compresa l’Orsa, che resta visibile per tutta la notte, nel corso dalla quale, mentre Arturo tramonta con la propria costellazione (Boote), Orione comincia a sorgere all’orizzonte. Si tratta, nella fattispecie, di una tipica navigazione estiva.

Anche i Greci uscirono, seppur sporadicamente, dai limiti occidentali del mondo classico, navigando sempre mediante l’osservazione degli astri. Così Pitea di Marsiglia nel IV secolo a.C., in una sua traversata oceanica, avrebbe visto il “Sole a mezzanotte” sul circolo artico. Il navigatore greco-marsigliese si sarebbe spinto fino in Gran Bretagna e all’isola di Tyle, situata tra questa e l’Islanda, alla ricerca dell’ambra. Plinio, nella sua Historia Naturalis, parla dello stesso fenomeno astronomico visibile in quell’isola estrema durante il solstizio d’estate.

Anche se sporadici, vi furono significativi tentativi di esplorazione geografica via mare oltre i confini del mondo conosciuto in Età Classica. La navigazione era estiva e l’orientamento si basava sulla posizione degli astri; in inverno le navi stazionavano in porti sicuri. A questi episodi storici va aggiunto l’esperimento di Thor Ejerdhal, che, nel secolo scorso, al secondo tentativo riuscì a raggiungere le isole dei Caraibi mediante un’imbarcazione egiziana di papiro, il Ra II, ricostruzione fedele di un naviglio dell’epoca dei faraoni, cercando in tal modo di dimostrare la possibile esistenza di rapporti intercorsi tra la civiltà del Nilo e quella precolombiana dei Maya.

Per quanto concerne la navigazione d’alto mare all’interno del Mediterraneo, le fonti classiche riportano la rotta Creta-Egitto, lungo la quale bisognava tenere a sinistra la stella β Ursae Minoris, quella che all’epoca di Omero era la più prossima al polo celeste settentrionale. Occorreva, invece, averla sulla destra quando d’estate si partiva la sera. Il poeta Arato, vissuto tra il IV e il III secolo a.C., afferma in proposito che: «l’una chiamano Cinosura (Orsa Minore), l’altra Eliche (Orsa Maggiore). E dall’Eliche i Greci sogliono in mare arguire per qual via debbano guidar le navi; i Fenici, invece, traversano il mare affidandosi all’altra. L’una è più chiara e facile a ritrovare, poiché risplende Eliche assai, sin dal principio della notte; l’altra (Cinosura) è piccola, ma ai nocchieri più utile, poiché tutta si volve con minor giro, e col suo aiuto i Sidonii (Fenici) navigano in direzione giustissima».

Testimonianze sulla navigazione mediterranea dei Romani autorizzano ad affermare che anch’essi si basavano sull’orientamento stellare. La fuga via mare da Farsaglia in Egitto di Pompeo fu contrassegnata dalla scelta delle Orse nella direzione della Siria, mentre a sinistra doveva esser lasciata la stella Canopo per spostarsi da Alessandria verso la Sirte (Canopo, stella principale della costellazione del Leone, è rimasta punto di riferimento per quella rotta per diversi secoli, poiché non ha subìto apprezzabili variazioni nella declinazione celeste dal IV secolo in avanti). I Romani, nell’orientamento sul mare, dovevano servirsi, oltre che delle stelle, anche di qualche particolare congegno: per stabilire la posizione dei quattro punti cardinali fondamentali, orientavano a mano la pinax, meglio nota come “bussola pelasgica”, verso oriente, una tavoletta circolare che recava l’immagine della rosa dei venti, stava al centro della nave e veniva orientata a mano al sorgere del Sole; una specie di sestante di bronzo, che serviva per misurare l’altezza del Sole, della Luna e delle stelle sull’orizzonte, utilizzavano ai tempi di Costantino il Grande (IV secolo d.C.), i cui frammenti furono riportati alla luce presso il litorale di Anticitera. Per l’orientamento “urbano” sulla terraferma usavano la groma, uno strumento formato da lamine di ferro incrociate che indicavano i cardini e i decumani della città, sovrapposte a strutture di legno e imperniate con boccole di bronzo, ritrovata in uno scavo archeologico nel 1912 a Pompei.

Altro sistema di orientamento usato nell’Antichità era basato sulla circolazione dei venti e sulla loro direzione. Così lo Zefìro spinse Achille dalla Tessaglia sulle coste della Troade. Ad Atene, accanto all’Acropoli, Adronico di Cirro nel I secolo a.C. costruì una “torre dei venti” provvista di anemoscopio per misurarne la direzione. Il romano Plinio realizzò, inoltre, un elenco dei venti che spirano nel Mediterraneo noti alla sua epoca. Ma i venti, accompagnando a volte grossi sistemi nuvolosi, rendevano difficoltoso l’orientamento astronomico e, se causavano tempeste, allontanavano le navi dalla giusta rotta, portandole in terre sconosciute, come spesso avvenne ad Ulisse, la cui navigazione mediterranea rappresenterebbe i primi tentativi compiuti dalle genti elleniche di spingersi verso occidente ed Esperia, la terra del tramonto (l’Italia meridionale). Anche san Paolo di Tarso fu protagonista suo malgrado di un naufragio, prodotto da un possente ciclone mediterraneo (un’estesa e forte area di bassa pressione).

L’ausilio della navigazione astronomica, sebbene favorisse in alcuni casi sporadiche e coraggiose traversate anche al di là dei confini del mondo classico, non consentiva, comunque, l’instaurarsi di sicuri e continui traffici marittimi in tutte le direzioni e in ogni stagione dell’anno, perchè, quando il cielo diventava nuvoloso e si navigava in mare aperto (senza poter scorgere la costa), l’orientamento era inevitabilmente compromesso e, di conseguenza, la rotta smarrita.         

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