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Amalfi

Le tecniche di coltivazione, produzione e commercio di vino e olio da Amalfi al Mediterraneo

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di GIUSEPPE GARGANO

Introdotta sulle alture collinari e i ripidi pendii amalfitani dai romani già nel I secolo dell’impero e prima dell’eruzione pliniana del Vesuvio, come dimostra il calco di un ceppo coperto dalle pomici ottenuto dall’archeologo Domenico Camardo presso la villa di Polvica di Tramonti, la vite era presente praticamente dappertutto nei secoli dell’Alto Medioevo: certamente in tutte le località del territorio stabiano, lungo il litorale e nel sito interno di Ponte Primaro a Maiori, in vari luoghi di Tramonti e di Ravello, nei casali extramoenia di Amalfi, nei posti interni ed elevati di Atrani e di Minori, sulle colline di Cetara, a Capri e Anacapri, nella località Tavernata di Scala, nei possedimenti amalfitani di Fonti e di Vietri posti nella giurisdizione del principato longobardo di Salerno. A Scala e ad Agerola il vigneto ebbe, stando all’analisi puntuale delle fonti superstiti, più larga diffusione soltanto nei secoli del Basso Medioevo; nel territorio scalese, durante il XVI secolo, i vigneti furono preferiti agli oliveti, in controtendenza rispetto a quanto accadeva nelle altre località della Costa, tant’è che in alcuni casi li rimpiazzavano. Nel periodo precedente in quelle terre montane abbondavano, invece, boschi e castagneti, fonti essenziali per la produzione della legna e della frutta secca.

La frequenza dei vigneti nel territorio amalfitano in età ducale (839-1131)


Territorio stabiano 24,5%

Maiori 19 %

Tramonti 16%

Ravello 13%

Amalfi 9%

Atrani 4%

Capri 4%

Cetara 3%

Minori 2,5%

Scala 1%


La frequenza dei vigneti nel territorio amalfitano in età sveva (1194-1265)


Tramonti 22%

Territorio stabiano 20.5%

Maiori 19%

Amalfi 11%

Ravello 8%

Praiano 6,5%

Capri 5%

Agerola 5%

Minori 2.5%

Atrani 1%

La frequenza dei vigneti nel territorio amalfitano in età angioina (1266-1442)

Tramonti 24,5%

Amalfi 22 %

Agerola 15%

Maiori 9%

Minori 8%

Ravello 6,5%

Praiano 5 %

Territorio stabiano 5 %

Scala 1,2%

Furore 0,9 %

Positano 0,9 %

Atrani 0,6 %

Il confronto tra queste tavole percentuali permette di stabilire che Tramonti è stata costantemente in testa per quanto riguarda l’impianto di vigneti dal tempo della repubblica marinara autonoma fino al periodo angioino. Il casale di Gete fu soprattutto interessato da una significativa distribuzione. Agerola, invece, è emersa nella stessa attività agricola dall’età normanna; anche Amalfi con i suoi casali e i terrazzamenti urbani ha aumentato la presenza di vigne in età angioina. In quel tempo fa la sua apparizione Furore con Casanova, che in epoca moderna diventerà uno dei più rinomati luoghi di produzione vinicola. La percentuale sembra esser diminuita sensibilmente nel territorio stabiano all’epoca degli Angiò, dove Gragnano e Lettere erano da tempo famose per i loro pregiati vini.

Queste statistiche sono, comunque, relative, in quanto i dati di Scala non sono completi, a causa della distruzione di numerose pergamene medievali in occasione della pestilenza del 1527; l’analisi dei dati raccolti tra XVII e XVIII secolo propongono, invece, una consistente presenza di vigneti per quella terra. Anche i dati relativi a Positano non sembrano essere completi; ad ogni modo quella terra non fu mai caratterizzata dal punto di vista agricolo da terrazzamenti coltivati a vite.

I vigneti erano impiantati in appezzamenti di terreno che, a secondo della forma e della dimensione, erano detti plazze, petie lentie. Tutti e tre i tipi erano misurati in pergule: 1 pergula rappresentava un’area equivalente a 3 passi cammisali x 3 passi cammisali; quindi valeva circa 28 mq. La petia in genere era di 1000 mq., mentre la lentia poco più ampia di 200 mq.

Le fonti permettono di stabilire una misura quasi standard per i vigneti del casale Ponte Primaro di Maiori (8 pergule = 224 mq.), dettata forse dalla costante conformazione del terreno.

Il vigneto veniva realizzato mediante le macerine, che contenevano con i loro muri a secco terrazzamenti non eccessivamente ampi. In alcuni casi di tipo urbano la vigna poteva essere allestita sul lastrico delle case rurali, sostenuta da pali di legno, in genere ricavati dai castagni; nel 988 il duca di Amalfi imponeva ad un privato cittadino di Atrani di coprire con una vigna un tratto di fiume posto al di fuori della porta settentrionale di quella città. Il pergolato realizzato su di una via pubblica del casale extramoenia Pustopla di Amalfi era costituito da pali alti 12 palmi (= 3 m.) nel 1330. In quello stesso secolo una domus del rione Arsina di Amalfi possedeva vites vive que saliant ad astracum. Nelle terrae del ducato le vigne a volte circondavano le abitazioni, come avveniva nella località Solfizzano di Tramonti nel 1377. Fuori le mura settentrionali di Atrani e sotto la contrada scalese di Pontone tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo fu costruito il monastero benedettino femminile di S. Maria de Funtanella proprio nell’ambito di un vigneto.

L’impianto di una petia de vinea in una terra vacua nel castello di Sopramonte, collocato al di sotto della località Cimbrone di Ravello e sopra la città di Atrani, viene ben descritto in un atto del 1029: in esso si legge che dapprima si procedeva a scippare le erbacce presenti nella terra, poi la si coltivava, quindi si pastinava la vinea de bono vitinio e la si faceva crescere su pali di legna e canne, legandola con salici e ginestre (armata in pergulis). Il vigneto, che occupava un’area pari a 36 pergule (= 1008 mq.), veniva zappato due volte all’anno, tempore congruo; il tempo per l’impianto e lo sviluppo era stimato in due anni. Così le varie fasi d’impianto e di mantenimento di una vinea erano contrassegnate dal bene laborandum, dall’armandum, dal vitandum, dal propaginandum, dal claudendum. Le viti potevano svilupparsi (propaginare) anche sui pioppi e sui castagni.

Una vinea di Curzano a Tramonti nel 1177 era cultata pastinata bitata et zappata et putata et armata in altum at pergule cum ligna et canne atque cum salicis et genestre. Questa serie di participi verbali, sistemati in ordine a figura di zeugma, indica, a guisa di climax cronologicamente ascendente, le puntuali fasi d’impianto del vigneto, specificando la costituzione del pergolato e la legatura della pianta a pali e canne mediante steli di salici e di ginestre. Le viti amalfitane erano dette vites latine.

Alla fine del XIV secolo un mese di lavoro di una vigna costava 7 tarì.

In maniera molto simile si procedeva nelle terre del vicino principato di Salerno; un documento del 1003, riferito a Sicignano, così afferma: <<vites plantare, et surgere, et putare, et impalare ad palos vonos fissicio et ligne, et zappare et circoitum cludere>>, specificando che l’intero completato vigneto veniva chiuso a cerchio. Inoltre, a Giovi una via vicinale tenuta in comune da due proprietari era coperta da un pergolato. Nella località Mercatellum, presso il fiume Sele, furono impiantate, nel corso dell’intero anno 1029, ben mille viti. A Salceto le viti erano poggiate su pali di quercia e di leccio.

Nel contempo a Terlizzi, in Puglia, si piantavano viti sulla terra di creta (vinea que vocat de Cretazzo). Sicuramente i vigneti impiantati sulla terra creta, come quelli di Tramonti, assicuravano la produzione di un vino forte e corposo.

La conoscenza dei costi dei vigneti attraverso il valore unitario della pergula assume una rilevante importanza soprattutto quale indicazione significativa dell’andamento dei prezzi nel corso del tempo e della qualità del prodotto.

Nel contesto del castello di Sopramonte e nei suoi paraggi il costo di 1 pergula de vinea nella prima metà dell’XI secolo si attestava tra gli 0,3 e gli 0,6 tarì; mentre nel rione Lacco di Ravello esso scese dai 15 tarì del 1070 agli 8,3 di nove anni dopo, subendo, quindi, un calo del 45%. Ad ogni modo, se a questi valori si associa il costo di 20 tarì della località Plano, allora si può stabilire che nell’ambito del territorio ravellese vi era una buona qualità nella produzione di uva e, di conseguenza, di vino.

Nella località interna di Ponte Primaro di Maiori la pergula de vinea passò da 1,2 tarì nel 1012 a 1,3 nel 1044 e a 4 nel 1053: pertanto, si verificò un graduale incremento di valore che si consolidò sul +208%. Lungo il litorale intanto la pergula valeva 52 tarì nel 1089, per calare poi nel 1118 a 25 (-52%). Tale comparazione mostra che la qualità delle uve della zona litoranea era decisamente migliore rispetto a quella del prodotto interno.

I vigneti della località Lauri di Tramonti mantenevano stabile il valore per pergula tra il 1105 e il 1115: 4 tarì. Cinquant’anni dopo il costo salì ad 11 tarì, per scendere a 8 nel 1182; quindi in quel secolo si verificarono alti e bassi economici collegati a variazioni probabili della qualità del prodotto.

Il valore monetario delle pergule del territorio stabiano risultava essere, nel contempo, decisamente basso, in funzione forse della larga diffusione del vigneto in quell’area (24,5%).

In età normanna a Praiano il costo di una pergula de vinea salì del 50% in dodici anni: dai 160 tarì del 1172 ai 240 del 1184, con un incremento rapido del 14% in pochi mesi nell’ultimo anno. Questi dati sono indicativi circa lo sviluppo del vigneto in quel casale di Amalfi per quel secolo.

La notevole importanza assunta dal vigneto per i contadini amalfitani del Medioevo è dimostrata da due significativi episodi: verso il 1070, durante la guerra scatenata contro Amalfi, le truppe del principe Gisulfo II di Salerno tagliavano le viti ai contadini del territorio amalfitano che vivevano lungo il confine tra i due Stati; le autorità angioine minacciavano, tra XIII e XIV secolo, il taglio delle viti a coloro i quali, abitanti del ducato marinaro, risultavano renitenti alla leva marittima.

Le fonti dell’età sveva offrono, inoltre, altri interessanti dati.

Il costo di una proprietà terriera di Tramonti, costituita da vigna, case, ambienti per la vinificazione e cisterna vide scendere il suo valore da 500 tarì d’oro amalfitani a 300 tra il 1218 e il 1254. In quel tempo e nella stessa area geografica la petia de vinea di 20 pergule appartenente ad un vigneto di 3360 mq. valeva 6,5 once d’oro, pari a 325 tarì amalfitani, per cui il valore della singola pergula ammontava a 16,25 tarì, praticamente lo stesso (16,7) di un’altra contemporanea pergula di Maiori.

Da quell’epoca cominciava una lenta ma inarrestabile crisi per il vigneto amalfitano, almeno relativo agli impianti costieri. Infatti le carte del XIII secolo provano la trasformazione alquanto frequente della vigna in castagneto o uliveto, castanetum qui antea vinea fuit, o addirittura del suo completo abbandono: petia de terra que antea vinea fuit. Il valore di 1 pergula di castagneto risultava allora essere piuttosto basso: 0,5 tarì amalfitani.

A cominciare dallo scorrere del XII secolo il vero sostituto del vigneto sui terrazzamenti amalfitani fu il limoneto: un documento del 1194 attesta che nella località litoranea Sentecli di Maiori le vigne venivano gradualmente rimpiazzate dai giardini e dagli orti di limoni. Lo stesso fenomeno si verificava contemporaneamente nei siti dell’attuale Valle dei Mulini di Amalfi. Ormai nel XIII secolo il limoneto aveva raggiunto costi decisamente elevati dell’ordine di 1000 tarì amalfitani per quelli del litorale maiorese. Così l’operazione di sostituzione agricola si completava in Età Moderna. La diffusione della coltivazione dei limoni fu favorita dall’aumento medio della temperatura avvenuto tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, dalla richiesta di un lavoro ben più ridotto rispetto alla vite, dalla commercializzazione aperta a vari centri del Tirreno sostenuta dall’applicazione gastronomica e nella pasticceria dell’agrume.

Il ducato di Amalfi dovette produrre grandi quantità di vino nel periodo della sua autonomia. A partire dal XIII secolo e a seguito della sostituzione, specialmente nelle zone rivierasche, con uliveti e agrumeti, la produzione diminuì sensibilmente: così al tempo di Federico II Amalfi importava vino da Sorrento per soddisfare il fabbisogno della popolazione. D’altronde il vino di Sorrento era famoso sin dall’antichità per la sua ottima qualità: Stazio, nella silva dedicata a Pollio Felice, che possedeva intorno al 90 d.C. una villa sul promontorio della Penisola Sorrentina presso il Capo Minerva, elogia il vino sorrentino, ritenendolo migliore del Falerno; Marziale, in aggiunta, gli dedica un suo epigramma: <<Che vino, il Sorrento!>>. Questo vino era già commerciato a Napoli nel 988.

Nel corso del XIV secolo giungeva vino de ultramare dalla Grecia ad Amalfi. Nel 1275 il monastero della SS. Trinità di Cava ordinava ai suoi vassalli di Castellabate di vendere il vino del Cilento nel ducato di Amalfi.

Le principali qualità di uve utilizzate nel territorio amalfitano per fare il vino erano la maniaverra (coltivata a Tramonti), la canajuola (da cui si produceva l’aglianico), la mannavacca, la scanzanese, la piede palumbo, la S. Nicola, la Maddalena, l’olivella, la moscadella, la ginestra, la cera, la mosca, la tronte. Allo scorrere del XIII secolo nel territorio stabiano erano impiantate viti di uva greca o fiana. Secondo l’opinione dell’indimenticabile studioso amalfitano di storia dell’alimentazione, Ezio Falcone, al quale dedico questa relazione, le più dirette discendenti dalle coltivazioni introdotte dai romani erano la S. Nicola e la sanginella, la quale dava il nome ad una località collinare di Minori (Sangineto).

La vendemmia si effettuava tra settembre e ottobre, a secondo del grado di maturazione delle uve, che tardava sulle alture. Allora, nei vigneti affidati in colonìa, si recava il fiduciario del proprietario per controllare le operazioni. Egli, nei giorni di permanenza nelle terre del padrone, riceveva il vitto dal colono, che consisteva nel coquinatum o nel pane et condimentum (in genere pane e lardo, da cui il cognome Pappalardo attestato ad Agerola e a Cetara). Anche nelle terre del ducato romanico-bizantino di Napoli gli operai che procedevano alla vendemmia (operarios at vindemmiandum) ricevevano come mercedes vinum ad eis bibendum et ubas pro lardum ad condendum oppure untu pro condiendum. Ad Angri, nel principato salernitano, l’uomo inviato dall’abate di S. Massimo di Salerno nel 959 per la vendemmia veniva rifocillato con lo stesso vino ivi prodotto. In quel casale i ravellesi, ancora agli inizi del XV secolo, producevano vino greco e maniaverrovini musti boni vini odoriferi et sine nefa (cioè profumati e senza muffa).

La vendemmia procedeva nel seguente modo: le uve venivano raccolte, pigiate e passate nel palmentum, che le torchiava; quindi il succo colava nel labellum, una vasca in muratura, da cui era travasato mediante un secchiello di legno (pistoreum lignum sclavineum) in una tinella o in una tina (contenitori anch’essi di legno), dov’era lasciato a fermentare. Quando il mosto era diventato vino (nella prima decade di novembre), veniva conservato, sulla scorta della tradizione romana provata dai ritrovamenti di Minori, Cesarano (Tramonti) e Bomerano e S. Lazzaro (Agerola), in grossi recipienti di creta o di pietra, i dolea realizzati specialmente nel territorio di Tramonti, da cui il toponimo Duliaria, le anfore ritrovate nella costruenda villa di Amalfi, le serole, che avevano una capacità intorno ai 15 congia, gli organea (vasa ad vinum reponendum) che però dovevano essere di legno, in quanto stretti da cerchi di ferro. Nel X secolo cominciò ad apparire la botte, un’invenzione gallica destinata a soppiantare i tradizionali contenitori romani e a contribuire al miglioramento delle tecniche conservative del vino; la botte compare a Lucera già nell’845. Le botti, denominate più tardi anche vegetes, erano particolarmente curate, per cui erano conciate con stoppa, ben strette con cerchi di ferro, affinchè non filtrasse il liquido dalle doghe (conciemus et distringamus buctes cum circli) e opportunamente lavate. La capacità delle botti era misurata in salme (sauma = 87,26 l.) e poteva assumere diversi valori, da 3 a 19, per cui ve ne erano di vari tipi. Il vino era anche sistemato in barili della capacità di 44 l. (barili de vino lestato). Botti e barili erano custoditi in appositi locali terranei, freschi e umidi, detti buctariacellaria o cervinaria.

Nel territorio del ducato di Napoli erano usati per la vendemmia palmentapro calcanda ube, addirittura fabrita, e per la conservazione del vino dulea, organea e botti; a Gaeta si usavano gli urcia, forse di creta. Nel territorio salernitano si vendemmiava in case, normalmente di legno o coperte a travi, dove torchiava il palmentum e la pila o il labellum raccoglieva il succo appena premuto; quindi il vino era conservato in organea conciata cum circla oppure in botti della capacità di 10 horne a Nocera o di 12 e 15 salme a Salerno ed era trasportato in quantità limitate mediante gli otra caprina. Lì è attestato il mestiere di varrilario, cioè di fabbricante di barili.

Nell’area pugliese si impiegavano palmentum, pila, magano, pisarola, organea, botti.

L’associazione di una potega maior e un palmentum et labellum (ambiente in fabbrica per la vinificazione) e a due botti in un casale della località Argentaro del territorio stabiano prova forse la vendita del vino al dettaglio nel ducato di Amalfi sin dal 996.

Vino greco bono, claro et traficato (bianco pagliericcio), prodotto nel territorio stabiano, e vino latino erano venduti dai tabernarii rispettivamente a Minori nel 1550 e a Scala nel 1326. In un magazenum di Minori nel 1458 era venduta la guarnaccia (vinus guarnacius) di produzione locale. Nel 1374 era attiva una taberna nella platea publica di Atrani, attrezzata con barili. Le unità di misura utilizzate nell’Alto Medioevo per la vendita di vino o mosto erano il congium e la laguna (= 29 l.), mentre nei secoli del Basso Medioevo si preferiva la salma. A Casola, nel territorio stabiano, era usata come misura di capacità per il vino, nel 1289, la decina = 4 rotoli, cioè 7,4 l. Agli inizi del XIV secolo il dazio pagato per la produzione di un barile di vino greco ad Amalfi era di 1 grano (la ventesima parte di 1 tarì e la decima di 1 carlino); per la vendita dello stesso dai tavernarii 5 grani.

A Napoli era venduto il vino greco nell’XI secolo al prezzo di 1 oncia per salma; inoltre, il vino prodotto a Quarto Maggiore dai monaci del monastero dei Ss. Sergio e Bacco era trasportato ogni anno, nella quantità di una tractorìa, al Castrum Cumanum, sede dell’amministrazione della contea di Cuma. Nella città partenopea si produceva un dolce lambiccato, mediante il filtraggio della vinaccia appena presa dalla vasca con la saccapanna, un alambicco di panno a forma di imbuto, secondo la tesi di Ezio Falcone. In tractorìe si vendeva pure il vino a Salerno, con la specifica menzione dell’assenza in esso di acqua (sine aqua).

A Siponto, in Puglia, nel 1130 cinque paia di botti costavano 1 soldo e un paio 5 denari. Sei anni prima il ravellese Ursone de Fimia riceveva l’autorizzazione a vendere vino nel vicinius della chiesa di S. Nicola di Bari dalla festa dell’Assunta e per tre anni di seguito.

Nel territorio amalfitano medievale è attestata pure la produzione di aceto: conservato in barili, veniva fornito per il vettovagliamento dei castelli del ducato.

Al tempo della vendemmia colono e fiduciario procedevano anche al sorteggio di alcuni cofina de ube (cesti di vimini realizzati soprattutto a Tramonti) o corone, che contenevano uva da tavola delle qualità marzolla, uva rosa, uva pane, uva sala, uva fragola, groja, moscadellone. Le fonti menzionano, inoltre, la produzione di uva passita già nel X secolo, venduta a sextaria nel territorio stabiano e, agli inizi del XIV secolo, a cannuli (panieri) a Napoli, dov’era trasportata da Minori.

Il vigneto era molto spesso associato all’attiguo uliveto lungo la Costa d’Amalfi, nel Salernitano e nelle terre pugliesi; il fenomeno era collegato al clima estivo alquanto torrido e alla caratteristica che entrambe le coltivazioni avevano bisogno di poca acqua.

Nel 1253 a Gragnano è attestata una vinea cum olivis. Nel casale amalfitano interno di Pustopla esisteva una vigna con oliveto, dai cui frutti si ricavava vino e olio nel 1273. A Minori nel 1310 vi era un castagneto con viti e ulivi.

Al tempo della repubblica autonoma gli oliveti distribuiti nel territorio amalfitano erano molto limitati, soprattutto rispetto ai vigneti: rappresentavano appena l’1% nella tabella della distribuzione percentuale delle coltivazioni. La maggior presenza si evidenziava nell’area orientale del ducato, tra Maiori e Cetara: pertanto, il monastero orientale fondato verso il 987 in quel territorio assunse l’appellativo di S. Maria de Olearia.

Nelle epoche successive l’impianto dell’oliveto ricevette un sensibile aumento in tutte le terre amalfitane.

La frequenza degli oliveti nel territorio amalfitano in età sveva (1194-1265)

Praiano 34%

Ravello 22%

Maiori 12,5%

Minori 12,5%

Territorio stabiano 9 %

Amalfi 6 %

Tramonti 3 %

La frequenza dell’oliveto nel territorio amalfitano in età angioina (1266-1442)

Minori 27%

Amalfi 22,5%

Ravello 13 %

Maiori 9 %

Territorio stabiano 9 %

Praiano 9 %

Tramonti 4 %

Scala 4%

Così nel periodo angioino Minori e Amalfi balzarono in testa nella graduatoria degli impianti di oliveti rispetto alla precedente epoca sveva, mentre Ravello confermava un’apprezzabile posizione.

L’impianto di un oliveto consisteva nel pastinare olivas bone progenie e due volte all’anno, tempore congruo, come avveniva anche per il vigneto, zappare, putare, cultare olivas. Nel 1229 bisognava insurculare de bonis olivis una terra di Minori, posta in località Pummecara; se gli ulivi non fossero allignati, allora si dovevano impiantare castagni. Di norma gli oliveti amalfitani erano sistemati, come i vigneti, a petie e si sviluppavano sui terrazzamenti. Nel 1282 le dimensioni di un oliveto di Torello (Ravello) erano di 78 pergule, cioè 2100 mq.

Nelle località rivierasche di Conca, Atrani, Vettica Maggiore tra i rami degli ulivi erano sistemate apposite reti per la trasìta de cotornicibus, molto efficaci nella cattura delle quaglie al tempo del loro arrivo dai mari del sud nel mese di maggio.

I ravellesi possedevano vinee olivarum nel territorio pugliese di Giovinazzo.

La pensione annua per la coltivazione di un oliveto da parte di un colono era di 5 tarì nel 1389 ad Amalfi.

Una petia de oliveto con trasìta a Praiano nel 1249 valeva 125 tarì amalfitani. Tra gli anni ’60 e ’70 del XIII secolo nella contrada Costa di Ravello 1 pergula di oliveto, che produceva 12 sestarii di olio all’anno, costava 5 tarì, pressappoco lo stesso prezzo di 1 pergula de vinea dello stesso luogo.

Alla fine di quel secolo la rendita annua di un oliveto di Massa (Sorrento) era di 36 tarì.

Nella metà di quello stesso secolo ad Olevano sul Tusciano un oliveto valeva 67 tarì e una terra con 4 ulivi 50 tarì.

Per la produzione dell’olio si utilizzavano i trappeti, frantoi azionati, come i mulini, dalle acque dei torrenti, che per caduta trasmettavano mediante alberi in legno (fusi) l’energia alle ruote di pietra, le quali trituravano le olive. Nel corso del Trecento lungo le rive del fiume di Minori ve n’erano un gran numero: uno di questi funzionava con mola ordinata pro oleo faciendo e produceva 2 sestarii di olio all’anno; un altro aveva l’oliveto collegato. Un trappeto era attivo lungo il ruscello di Vettica Maggiore che sfocia nella Praia e un altro nel Fiordo di Furore. Anche a Scala viene registrata la produzione di olio alla fine del XIV secolo.

Nelle terre pugliesi e a Furore i trappeti erano ubicati nelle grotte ed azionati da animali.

Le migliori qualità di olive erano coltivate a Scala e a Ravello, dalle quali si ricavava un olio finissimo e privo di grassi. Da un oliveto della località Sciola di Praiano nel 1233 si otteneva un olio utile per l’illuminazione dell’immagine della Vergine affrescata nel monastero di S. Lorenzo del Piano di Amalfi.

Dalle terre salernitane giungeva olio di buona qualità nel ducato di Amalfi.

Ad Eboli si producevano 65 sestaria de bono et puro oleo olivarum claro et trasmutato et odorifero al prezzo di 3 tarì e 17 grani per sestario nel 1377. Tre anni dopo da Olevano giungevano 40 quaranteni di olio bono et netto.

L’olio era un ottimo condimento nel 1216 per il prandium ecclesiastico del vescovado di Ravello; così pure nel menu della mensa dei chierici amalfitani esso condiva le zucchine quale contorno alle carni lesse previste per il giovedì. Naturalmente questi prandia erano accompagnati da sani vini, che non mancavano neppure nell’alimentazione della nobiltà amalfitana, quali il vino bizantino medicato con miele, spezie, pece e gesso, il vino greco e quello latino, il vino calabrese di Cirella servito per il pranzo di Pasqua del 1602 offerto dall’Università di Amalfi al vicerè di Napoli.

Il mosto cotto era poi utilizzato per confezionare i “mostacciuoli”, dolci a forma di rombo attestati sin dal X secolo.

Il vino, portato nelle brocche di terracotta, era servito in coppe d’oro o d’argento alla tavola dei ricchi, come i Rufolo di Ravello che, secondo la tradizione, durante i fastosi ricevimenti offerti in onore dei re angioini nella loro dipendenza di Marmorata, ad ogni portata le gettavano in mare insieme ad altre posate preziose, ostentando in tal modo la loro ricchezza; naturalmente tali oggetti finivano in apposite reti per esser poi recuperati.

Sulla tavola del popolo il delizioso nettare era bevuto in tazze di ceramica o in boccali di peltro o legno.

In entrambe le circostanze, comunque, in onore dei buoni vini stabiani, si preferiva brindare: «Vivere vis sanus?Graniani pocula bibe!».

redazione
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