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Ravello 1902. Quando E. M. Forster incontrò il dio Pan a Fontana Carosa

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di OLIMPIA GARGANO

There are cities and towns that become one with the authors who set their works there. Think for example of Dublin and James Joyce, Prague and Franz Kafka, and so on. However, it is more unusual to find dedicated to a writer a landscape suspended, as on the Amalfi Coast, between the green chestnut trees and the blue of the sea in the distance. This is what happens in Ravello, where the inauguration of the “Digital Grand Tour” celebrates the dedication to E. M. Forster (1879 – 1970) of the path that crosses the valley of Fontana Carosa, where in 1902 The Story of a Panic was conceived.

Ci sono luoghi che diventano tutt’uno con gli autori che vi hanno ambientato le loro opere. Pensiamo per esempio a Dublino e James Joyce, Praga e Franz Kafka, Aci Trezza e Giovanni Verga, per nominarne solo alcuni. È invece più raro trovare “luoghi d’autore” in piena natura, fra il verde dei castagni e l’azzurro del mare in lontananza.

È quello che succede a Ravello, dove con l’inaugurazione del “Digital Grand Tour” si festeggia il battesimo del sentiero che attraversa la valle di Fontana Carosa in  cui fu concepito The Story of a Panic di Edward Morgan Forster (1879 – 1970), considerato dai critici uno dei suoi migliori racconti di genere fantastico.

La cosa ancora più insolita è che, come vedremo, grazie alle informazioni fornite dall’autore stesso e da sua madre al loro arrivo a Ravello, questo racconto ha una vera e propria carta d’identità, completa di data e luogo di nascita.

Il padre dello scrittore, l’architetto Edward Morgan Llewellyn Forster, morì di tubercolosi poco dopo la nascita del bambino. Ragazzino pallido e introverso, Morgan (come lo chiamò sua madre Alice Clara Whichelo, detta Lily) crebbe tra una piccola folla di zie, una delle quali gli lasciò in eredità una somma sufficiente  a viaggiare e darsi alla scrittura per il resto della sua vita.  Nei suoi anni universitari al King’s College di Cambridge entrò a far parte degli “Apostles”, associazione studentesca che prese nome dal numero dei suoi fondatori, dodici come gli apostoli. Era una di quelle “società segrete” tanto diffuse nelle università di tipo anglosassone. Avete presente la “Setta dei Poeti Estinti” nel film L’attimo fuggente? Ecco, qualcosa del genere. Discutevano di etica, filosofia e letteratura. Si pregiavano di essere trasgressivi e di contestare i vincoli sociali, sta di fatto che fino al 1970 impedirono l’accesso alle donne. 

Comunque sia, fra gli “Apostoli” c’era anche lo scrittore suo quasi coetaneo Lytton Strachey, che in seguito arriverà a Ravello insieme con altri intellettuali del Gruppo di Bloomsbury, fra i quali Virginia Woolf. Lytton lo chiamava “the taupe”, “la talpa”, non si sa se per la sua apparenza generalmente grigia, o per il fatto che negli ambienti londinesi sbucava fuori quando meno se lo aspettavano

Il 3 ottobre del 1901, subito dopo la laurea a Cambridge, Morgan e Lily Forster cominciarono un lungo viaggio in Italia. A febbraio dell’anno seguente erano a Roma, dove lui si ruppe un braccio cadendo sulle scale di san Pietro. Nei mesi successivi visitarono la Sicilia, e il 7 maggio del 1902 arrivarono a Napoli.

Per un’errata informazione trovata nella loro guida di viaggio, e con grande delusione del giovane Morgan, madre e figlio non fecero in tempo ad assistere al “miracolo di maggio”, la liquefazione del sangue di san Gennaro che si era celebrata cinque giorni prima. Ma la storia del santo martire venerato a Napoli colpì la sua immaginazione, e lasciò traccia nel racconto scritto qualche settimana dopo, dove il personaggio chiave si chiama Gennaro.  

Da Napoli andarono a Paestum e poi ad Amalfi, da dove salirono a Ravello. Qui presero alloggio alla Pensione Palumbo. Nel suo diario, Lily scrisse: “Morgan è andato a fare una lunga passeggiata”. Chi poteva immaginare che quell’escursione in solitario a Fontana Carosa avrebbe segnato l’inizio della sua attività di scrittore?

Era il 25 maggio. Ripercorrendo i primi passi del suo percorso letterario, Forster descrisse quella esperienza con queste parole: “Credo che fosse maggio del 1902 quando feci una passeggiata nei pressi di Ravello. Ero seduto in una valle che sovrasta il paese a qualche chilometro di distanza, e improvvisamente il primo capitolo della Storia di un panico, il primo racconto che io avessi mai scritto, irruppe nella mia mente come se fosse stato lì ad aspettarmi. L’accolsi come un’entità e l0 trascrissi appena tornai in albergo”.

Non capita spesso di trovare parole così precise per indicare il sorgere di un’ispirazione. Ancora più insolito che sia l’autore stesso a parlarne: Forster ci dice che la storia era già lì ad aspettarlo, e che lui l’aveva “accolta” come una presenza che si manifesti indipendentemente dalla nostra volontà. È una rappresentazione che ha qualcosa di mistico, come si addice a un racconto dove entra in scena una divinità.

La storia comincia con quella che potrebbe essere una piacevole e tutto sommato banale escursione di una comitiva di turisti inglesi in vacanza a Ravello. Del gruppo fanno parte le due signorine Robinson, il loro nipote Eustace, adolescente irrequieto in guerra col mondo, il cappellano  Mr Sandbach, che avendo perso la sua parrocchia nel nord dell’Inghilterra si era offerto di occuparsi dell’educazione di Eustace, un aspirante artista di nome Leyland e il narratore,  Mr Tytler con moglie e figlia.

Il gruppo aveva da poco finito di consumare il picnic e assaporava il dolce far niente del Sud. Perfino la vegetazione appare tipicamente meridionale agli occhi del narratore, secondo il quale “i dolci castagni del sud sono gracili giovincelli” rispetto ai “robusti alberi nordici”. Eustace era intento a intagliarsi un fischietto nel ramo di un albero, mentre gli adulti conversavano di arte e temi morali, quando all’improvviso avviene qualcosa di inimmaginabile. Sentiamolo dalla voce di Mr Tytler:

“La conversazione toccò vari argomenti, e poi si interruppe. Era un pomeriggio di maggio senza nuvole, e il verde pallido delle giovani foglie di castagno faceva un bel contrasto contro l’azzurro intenso del cielo. Eravamo seduti ai margini della piccola radura a guardare il panorama, e l’ombra degli alberelli di castagno dietro di noi ci copriva a malapena. Tutti i suoni svanirono — almeno questa fu la mia impressione (Miss Robinson dice che il clamore degli uccelli è stato il primo segno di disagio che lei aveva percepito). Tutti i suoni svanirono, se non che, in lontananza, potevo sentire due rami di un grande castagno che stridevano l’uno contro l’altro mentre l’albero ondeggiava. Lo stridio si fece sempre più breve, e alla fine anche quel suono svanì. Mentre guardavo le punte verdi della valle, tutt’intorno regnavano immobilità e silenzio, e quel genere di apprensione che si prova così spesso quando la Natura è inerte cominciò a pervadermi.

All’improvviso fummo scossi dal rumore straziante del fischietto di Eustace. Non avevo mai sentito uno strumento emettere un suono tanto assordante e stridulo”.

Quel fischio lacerante li riporta alla realtà. L’incantesimo sembra essersi spezzato, e per qualche istante la conversazione riprende, come per far finta che nulla fosse successo. Ma un silenzio terribile cala di nuovo su di loro, mentre una leggera brezza sbucata dal nulla passa sulle chiome degli alberi. Una sensazione inesprimibile di terrore li assale, e cominciano a correre a precipizio giù per la valle.

Scappano tutti, tranne Eustace. Quando si accorgono della sua assenza e tornano a cercarlo, lo trovano disteso sulla schiena, immobile. A poca distanza da lui, nel terriccio umido sotto i castagni, delle impronte di capra.

È il momento culminante del “panico” che dà il titolo al racconto. È l’esperienza provocata dal dio Pan, creatura mitologica mezzo uomo e mezzo capra, che secondo gli antichi abitava fra i boschi e seduceva al suono del flauto.  Era il simbolo della potenza della natura, esplosione di vitalità e libertà sessuale. La sua presenza si manifestava sotto il sole a picco delle giornate  più calde, nell’”ora panica”, appunto, quando la natura sembra colpita da un incantesimo e gli esseri umani restano ipnotizzati e privi di volontà.

Eustace si riprende dal suo stato di inerzia. Sul volto ha un sorriso estatico, che non gli avevano mai visto prima. Mentre si rimettono in cammino per tornare in albergo, fra la sorpresa di tutti, il ragazzo chiede di vedere Gennaro, il cameriere dell’albergo. Gennaro era un giovanissimo pescatore di Minori che era stato chiamato a sostituire provvisoriamente Emanuele, ben più raffinato e professionale. Gennaro non parla una parola di inglese, e dà del tu agli ospiti. Nella sua semplicità, è l’unico che riesce a capire Eustace e la sua smania di libertà. Candido e innocente, come il suo omonimo santo napoletano che aveva colpito l’immaginazione dello scrittore, Gennaro sarà il vero martire della vicenda.

Prima di allora, E. M. Forster aveva pubblicato soltanto alcuni articoli per studenti universitari. The Story of a Panic uscì nel 1904 sulla Independent Review, rivista fondata dalla cerchia degli “Apostoli”. I suoi amici commentarono il racconto con osservazioni sarcastiche, una reazione che lo lasciò “inorridito e disgustato”. Quella storia di ragazzi, di satiri e capre, a loro sembrò un’avventura “salacious”, “oscena”, di chiara impronta omosessuale. Per lui fu un colpo da cui si riprese dopo molto tempo, quando finalmente capì che quel racconto che gli si era manifestato “come se fosse lì ad aspettarlo” gli aveva rivelato qualcosa che fino a quel momento aveva tenuto nascosto anche a sé stesso, e che forse non  accettò mai completamente, visto che per sua precisa volontà il suo romanzo dalle tematiche dichiaratamente omosessuali, Maurice, fu pubblicato soltanto dopo la scomparsa dell’autore.

Quell’esperienza vissuta a Ravello  rimase impressa nei ricordi dello scrittore, che ne parlò più volte negli anni successivi. In una conferenza tenuta a Roma nel 1962, disse che l’Italia aveva introdotto l’ispirazione nella sua mente, “quasi con forza fisica”.

Di particolare interesse quello che scrisse in una raccolta di racconti dall’India, quando a proposito del racconto ambientato a “Fontana Caroso” dice che aveva voluto creare un “terribile spavento” per punire l’insensibilità di quelle persone che “avevano incontrato e offeso il Grande Dio Pan”.

Da oggi, il sentiero porta il suo nome. Proviamo a percorrerlo, questo e gli altri splendidi cammini sospesi fra cielo e terra che attraversano da un capo all’altro la nostra Costiera, restando in ascolto della voce della Natura che cerca in ogni modo di parlarci.

redazione
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