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Ravello 1841, la leggenda del tesoro nascosto e il rito propiziatorio: quel bambino ucciso a Villa Rufolo

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di EMILIANO AMATO

Nell’aprile del 1841 un tremendo crimine venne commesso a Ravello. Un bambino di tre anni fu rapito e sacrificato a palazzo Rufolo. Una storia raccontata negli atti processuali ma anche in un manoscritto di sir Francis Nevile Reid che dopo nove anni acquistò la villa.

La leggenda narrava di un “tesoro nascosto” nel centro storico di quella che fu la sfarzosa Ravello, tra palazzi diroccati dei Rufolo e dei Confalone. E solo con un rito propiziatorio si poteva entrare in possesso del tesoro. Intorno al 1821 abitava in una parte del palazzo Confalone, un siciliano, Don Paolo detto “il campanellista” che, secondo la vulgata, con una sua verga di ottone in cui era racchiuso uno spirito guida, aveva scoperto a Torello due anfore colme di monete. A Ravello la fama di quest’uomo arrivò al punto consentirgli di attorniarsi uno stuolo di seguaci, assistenti nelle esplorazioni degli ambienti interrati del palazzo Rufolo, alla ricerca di tesori. Secondo il racconto popolare, in una sala inesplorata Don Paolo si trovò una notte di fronte quattro grandi statue d’oro massiccio e una figura barbuta, riccamente vestita, la quale affermò in ebraico che se non gli avessero portato l’anima di un bambino di tre anni nessuno avrebbe potuto godere di quelle ricchezze.

Al prodigio assisterono anche i proseliti e tra questi apprendisti-stregoni vi era un ragazzo di nome Tommaso Manzo. Vent’anni dopo questi fatti Manzo, detto Tommasone, fu reputato in patria “mastro di stregoneria”, plausibile erede delle arti di Don Paolo, anche noto alla Corte Criminale come pregiudicato per reati di furto e violenza privata. Al suo rientro in paese dal carcere di Ponza, insieme al suo “cerchio magico” composto dal fratello Matteo, con Pantaleone Imparato, Giovanni d’Agostino, Giovanni e Bonaventura Amato, muniti di un “libro di segreti” tentano di scavare un “tesoro” nella chiesa sconsacrata di Sant’ Andrea del Pendolo, senza riuscirvi. Si fa strada in quelle menti perverse che per riuscire nell’impresa occorreva versare il contributo di sangue innocente, come richiesto dallo spirito custode degli ori sepolti.

Tentarono, quindi, di comprare un infante di tre anni da un poverissimo padre di molti figlioli offrendogli tre ducati ma questi, intuendo il destino della sua creatura, si rifiutò. Non desistettero però gli invasati. Nel pomeriggio del 6 aprile 1841, martedì prima di Pasqua, scomparve da Ravello il piccolo Onofrio Somma, di circa tre anni: mentre giocava nel largo di Santa Maria del Lacco venne afferrato da Manzo e nascosto rapidamente in un cestone per gli erbaggi. Il piccolo Onofrio fu prima portato in casa del Manzo e poi segregato in una casa fuori dal paese.

Il padre del bambino, disperato, si rivolse per consiglio alla clarissa Suor Rosa, nota nel circondario come “la monaca santa”, la quale gli disse che solo Tommasone poteva fargli riavere suo figlio; allora il 10 aprile si recò a casa di costui, che però negò ogni possibilità d’intervento. Manzo e gli altri cinque aspettarono ancora sei giorni prima di eseguire il sacrificio rituale e, cessate le infruttuose ricerche da parte del padre e della forza pubblica, la notte del 16 aprile, tenendo per mano il bambino, si recarono al palazzo Rufolo.

Si riportano le testimonianze rese da alcuni “pentiti” tra i complici nel corso dell’istruttoria: “…Si accende una lanterna, si sparge a terra un fiaschetto d’olio, d’Agostino continua a tener per mano il fanciullo, ed Imparato lo tiene per le spalle. Tommaso Manzo apre un libro grande tutto affumicato: e comincia a leggere, facendo degli scongiuri. Era scorsa quasi un’ora e mezza che si facevano quelle operazioni magiche, e vedendo che nulla si ricavava d’Agostino si sdegna, ed esclamando: Mannaggia l’anima del diavolo, qui non ne ricaviamo nulla, risolsero tutti di compiere le operazioni nell’altro diruto palagio Confalone, si fermano in un vano di quell’edifizio, dove riaccesa la lucerna, Tommaso Manzo fa col coltello un cerchio sul suolo, e situato nel mezzo in piedi il suddetto fanciullo, tenuto per le spalle da ambedue le mani da Imparato, apre il libro, e comincia a leggere. In questo frattempo d’Agostino situandosi avanti il ragazzo, impugna colla destra un temperino a due lame, e colla sinistra otturandogli la bocca lo uccide, recidendogli la canna della gola, ed indi lambisce il sangue di cui la lama era intrisa”.

Il corpo del bambino venne rinvenuto all’alba del 21 aprile, alle 14,00, in Via San Martino, nei pressi del cimitero. A leggere lo stato del piccolo cadavere nella descrizione della perizia medico-legale c’è da inorridire. Dopo la confessione di alcuni dei sospettati e all’arresto dell’intero gruppo seguì un lungo processo, riassunto da Stefano Pucci, avvocato della difesa, nel volume “Discorsi in materia criminale”, stampato a Salerno presso Migliaccio nel 1857. La sentenza della Gran Corte Criminale di Salerno venne emessa l’11 settembre 1844 e condannò Tommaso Manzo, Giovanni D’Agostino e Pantaleone Imparato alla pena di morte, Giovanni e Bonaventura Amato rispettivamente a trenta e a dieci anni di carcere. L’esecuzione capitale dei primi tre si ebbe a Salerno la sera dell’11 giugno 1845.

Risultarono utili alla ricostruzione della vicenda il testo di Reid e la sua seconda edizione (Londra 1909, a cura di E. Allen e C.C. Lacaita), parzialmente ripubblicata da Paolo Emilio Bilotti (“Palazzo Rufolo” in “Archivio Storico della Provincia di Salerno”, A. II, fasc. 1-2, Salerno, 1922, pag. 75-83), e infine il volume citato dell’avvocato Pucci, che riporta l’intera istruttoria, il testo dei ricorsi e le motivazioni della sentenza.

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