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San Gennaro alla “conceria”, storia e memoria di una cappella rurale di Ravello

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di SALVATORE AMATO

C’è una zona apparentemente recondita di Ravello, non lontana dalla chiesa di San Michele Arcangelo di Torello.

L’area in questione è conosciuta dal volgo con il nome di “conceria” per la presenza di un’attività manifatturiera da ricondursi al corso dell’Ottocento e ad una famiglia ivi dimorante. Alla sommità di un antico complesso abitativo e lavorativo, ostruito all’ingresso da alcune piante, appare un piccolo edificio di culto, identificato dal Fulchignoni con il nome di San Gennaro e di cui si distingue ancora l’altare principale.

Se l’identificazione è esatta, si tratterebbe allora della Cappella dedicata alla Beata Vergine delle Grazie e ai Santi Michele e Gennaro, la cui fondazione, avvenuta tra il 1750 e il 1751, è ben documentata da alcuni fascicoli conservati nell’Archivio Vescovile di Ravello. Dall’incartamento si apprende che il minorese Gennaro Manso, agli inizi di dicembre del 1750, chiese al vescovo della diocesi di Ravello-Scala Biagio Chiarelli l’assenso per l’edificazione di una cappella nel suo podere ravellese di Marmorata.

E ciò non solo per la «gran devozione» che il Manso nutriva per la «Beatissima Vergine Maria delle Grazie» e per i Santi Michele Arcangelo e Gennaro Martire, «principale padrone e protettore della città di Napoli e di tutto questo Regno», ma anche per comodità della sua famiglia e di tutte le persone che lavoravano e transitavano nel suo podere. In effetti, sulla base di alcune rilevazione demografiche, tra la seconda metà del Settecento e gli inizi del secolo successivo la Parrocchia di San Michele di Torello, nel cui distretto sorgeva la nuova cappella, presentava dai 280 ai 300 abitanti, risultando la più popolosa dell’intero territorio cittadino.

Al dire della supplica la Cappella di San Gennaro beneficiava di alcune rendite provenienti da soscelleti (carrubi) e dagli oliveti posseduti dagli eredi di Carlo Prota e Pasquale Manso, situati nella località Cafaro, e per le quali l’onere era fissato a 25 messe da celebrarsi nei giorno festivi, a partire dal mese di giugno. L’incaricato delle celebrazioni doveva essere un cappellano, eletto liberamente dal fondatore e dai suoi eredi e discendenti.

Infine, secondo la prassi del tempo, una parte delle entrate dovevano essere devolute annualmente al Vescovo per il jus cattedratico e per la visita annuale alla cappella. La richiesta di Gennaro Manso fu dunque accettata e il 12 dicembre 1750 Mons. Chiarelli, col parere favorevole anche del parroco di Torello Lorenzo Risi, approvò l’edificazione. Ottenuto il decreto vescovile, non restava che definire gli aspetti giuridici e costitutivi della nuova fondazione, stabiliti da alcuni atti notarili redatti tra il gennaio e il luglio del 1751 dal notaio Luise d’Amato.

Da essi, oltre agli accordi già esposti nella supplica, si apprende che il fondatore doveva provvedere anche alle suppellettili e all’arredo liturgico. L’apposizione della prima pietra e la benedizione dell’area su cui sorse la cappella venne affidata da Mons. Chiarelli a Don Lorenzo Risi che, il 7 gennaio 1751, si recò nel podere di Gennaro Manso nella località “Lurito” di Marmorata e, indossati i paramenti sacri e pronunciata la formula di benedizione, appose la prima pietra della costruenda cappella. I lavori dovettero procedere alacremente e terminarono nel luglio successivo. Conclusa l’edificazione, Gennaro Manso decise di affidare la cura della cappella al Risi per «il merito, bontà di vita ed altri giusti e premurosi riflessi».

Stabiliti e regolati gli aspetti meramente amministrativi della nuova cappellania laicale, bisognava attendere solo la solenne benedizione, avvenuta pochi giorni dopo la solennità liturgica di San Pantaleone. A raccontare quell’evento per tramandarne in perpetuo la memoria Gennaro Manso chiamò ancora una volta il notaio Luise d’Amato, divenuto per l’occasione cronista dell’avvenimento. Era il 29 luglio del 1751 quando Mons. Biagio Chiarelli, vestito di abiti pontificali e assistito da molti sacerdoti e canonici del Capitolo della Cattedrale di Ravello, benedisse e dedicò solennemente, «secondo il Rito della Santa Romana Chiesa e del Pontificale Romano», la cappella di Santa Maria delle Grazie e dei Santi Michele e Gennaro.

Nel corso della celebrazione, alla quale fu presente molta gente, fu benedetta anche la campane e il calice. Il rito si concluse, secondo una prassi in vigore ancora oggi nelle occasioni festive, con il suono a distesa delle campane e lo «sparo di molti mortaretti». La vita della Cappella non dovette essere molto longeva anche se, al dire del canonico Luigi Mansi, alla fine dell’Ottocento era ancora officiata e vi si celebrava in tutte le feste.

È probabile, ma le ipotesi vanno sempre e comunque verificate, che nel corso del Novecento l’esiguità delle rendite e il progressivo disinteresse a mantenerne vivo il funzionamento condannarono la piccola cappella di San Gennaro all’oblio e all’abbandono, chiudendo, di fatto, un’altra piccola pagina devozionale della Ravello del Settecento.

redazione
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