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5 Maggio, la morte di Napoleone nei versi di Manzoni

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di NOVELLA NICODEMI

Una delle più celebri liriche della letteratura italiana nacque di getto, in soli tre giorni, dopo la sconvolgente notizia della morte di uno degli uomini più importanti della storia di tutti i tempi. Fu il giornale inglese The Statesman, nell’edizione del 4 luglio 1821, a dare a un mondo totalmente cambiato con Il Congresso di Vienna e la Restaurazione la notizia della morte di Napoleone Bonaparte, ma Alessandro Manzoni la apprese dalla Gazzetta di Milano del 16 luglio 1821, rimanendo estremamente colpito e commosso dalla conversione dell’ex imperatore avvenuta poco prima del trapasso.

Napoleone Bonaparte si era spento nell’isola di Sant’Elena dove era stato esiliato lasciando un mondo che aveva dominato, tra vittorie e sconfitte, con la sua vertiginosa ascesa, le sue strategie militari, il suo genio carismatico.

Anche Silvio Pellico, Lamartine e Lord Byron composero versi ispirati in onore di questa grandiosa personalità, ma fu l’ode manzoniana Il cinque Maggio ad avere straordinaria risonanza anche fuori dall’Italia tanto da essere subito tradotta da Goethe.

Due anni dopo, grazie al Memoriale di Sant’Elena, dettato in gran parte da Napoleone, con la descrizione della sua misera vita da esiliato scritta dall’amico Emmanuel de Las Cases, l’indifferenza che aveva meschinamente riservato l’opinione pubblica alla sua dipartita si trasformò in interesse.

In una casa fatiscente casa esposta alle intemperie, malsana e infestata da zanzare e topi, il generale corso, palesemente ingrassato e invecchiato prima del tempo, convinto di avere lo stesso male del padre – un tumore al piloro –  e una diagnosi di epatite cronica effettuata dal suo medico personale, l’irlandese O’Meara, morì per un’ulcera.

Dopo l’estrema unzione impartitagli dall’ abate Vignali, trascorse tra il 4 e il 5 maggio una notte di delirio in cui proferiva parole sconnesse, con gli ultimi pensieri rivolti alle parole piene di devozione e sincero affetto che aveva ricevuto dal figlio Napoelone II: Padre vi amo e vi stimo con tutto il cuore.

Quella di Manzoni è un’ode in cui il respiro epico si fonde magistralmente con le riflessioni etiche e religiose incentrate sul ruolo salvifico della Grazia divina.

Il poeta dà avvio alla lirica col lapidario Ei fu: nel pronome personale utilizzato al posto del nome di battesimo si condensa tutta la grandezza del personaggio ma anche la sua umanità. La solennità di questo esordio rimarca, anche con la scelta del passato remoto, la chiusura definitiva di un’epoca che dall’ex imperatore aveva preso il nome, l’età napoleonica.

L’ardimentoso condottiero corso che divenne imperatore dei francesi con un’autoproclamazione, togliendo la corona dalle mani di  papa Pio VII e ponendosela da solo sul capo, si spegneva in un’isola sperduta dell’Oceano atlantico lasciandosi andare, come la feconda  l’immaginazione di Manzoni suggerisce, a causa dell’ozio forzato, a una serie di ricordi che si affastellano nella sua mente, schiacciato quasi dal peso di una vita intensa vissuta con lo spirito indomito di un leader nato.

Ricordare è doloroso, ma anche catartico.

Il generale cui era stata affidata la Campagna d’Italia e che aveva deluso le speranze di patrioti come Ugo Foscolo cedendo Venezia all’Austria col trattato di Campoformio, che si era spinto dall’Alpi alle Piramidi, dal Mazzannarre al Reno, dopo la disastrosa campagna di Russia del 1812, la disfatta di Lipsia del 1813 e la sconfitta epocale di Waterloo nel 1815, nonostante il disperato tentativo di tornare in auge nei famosi 100 giorni, si era infine dovuto piegare alla volontà del destino.

Manzoni, contrariamente ad altri scrittori, non aveva mai scritto di lui quando era in vita, quando quei rai fulminei che erano i suoi occhi febbrili fiammeggiavano pregustando scenari inimmaginabili.  Solo quel fatidico 16 luglio gli diede l’ispirazione per comporre quei versi straordinari che ne commemoravano la vita ma soprattutto la morte, in una prospettiva cristiana. Napoleone per Manzoni aveva avuto la fortuna di morire nella condizione di oppresso e non di oppressore e questo passaggio era fondamentale perché gli avrebbe aperto le porte della vita ultraterrena. Come Ermengarda, sorella di Adelchi e figlia del re dei Longobardi Desiderio, che esalerà il suo ultimo respiro in convento, dopo essere stata atrocemente ripudiata dal marito Carlo Magno, tra sofferenze indicibili e strazianti ricordi della vita a corte col suo amato marito. La donna viene considerata dal poeta come un’eletta per il privilegio concessole dalla provvida sventura, di morire, appunto, da oppressa. Una sorte tragica ma provvidenziale nella misura in cui le ha consentito di aspirare alla beatitudine eterna.

Giammai una più superba altezza non si chinò al disonore del Golgota»: mettendo da parte l’orgoglio, negli ultimi istanti di vita questo grandissimo uomo, artefice di un glorioso destino, china la testa abbracciando quella fede che promette ben altra gloria. E se l’ardua sentenza sul suo operato viene lasciata ai posteri, ci piace sottolineare, tra le tante altre considerazioni che si potrebbero fare, come, soprattutto col Codice civile napoleonico del 1804, Bonaparte ebbe un ruolo decisivo nello svecchiamento di retaggi feudali e nella modernizzazione della Francia, il paese in nome del quale aveva valorosamente combattuto.

redazione
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