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Il Beato Bonaventura: esempio di carità, obbedienza, santità

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di LUIGI BUONOCORE

Si era nel cuore del rigido inverno quando, il 4 gennaio 1710, padre Bonaventura, in qualità di superiore, insieme ad altri confratelli raggiunse, percorrendo vie accidentate, una Ravello solitaria, che nelle visite ad limina era apparsa “una città con edifici caduti o cadenti e in gran parte rasa al suolo”.

Era stato il vescovo di Ravello Giuseppe Maria Perrimezzi (1707-1714), dei Minimi di San Francesco di Paola, a richiedere la riapertura del convento francescano di Ravello, già soppresso nel 1652, raccogliendo il fervore devoto della comunità cittadina.

Nella città costiera il frate potentino avrebbe terminato una lunga itineranza, spesa totalmente nel soccorso ai poveri e agli ammalati senza, tuttavia, far mancare una parola di conforto ai nobili che, con frequenza, si rivolgevano a lui. Amalfi, Napoli, Sorrento, Capri e Ischia, sono solo alcune tappe di un itinerario spirituale, prima che fisico, volto all’imitazione di Cristo sull’esempio del Serafico Padre San Francesco e costellato di eventi prodigiosi, prima di essere nominato maestro dei novizi nel convento di Nocera de’Pagani.

A Ravello il pensiero del Beato andava spesso alle parole del suo maestro spirituale, il Venerabile Domenico Girardelli da Muro Lucano, altro figlio esemplare della Provincia francescana conventuale di Napoli, morto ad Amalfi nel 1683 e sepolto nella chiesa del convento di San Francesco. Egli, tre anni prima della dipartita, nel momento del commiato aveva profetizzato a padre Bonaventura la riapertura della casa conventuale della “Città di Ravello col favore di un vescovo amantissimo dei nostri” dove avrebbe trascorso gli ultimi anni prima del suo ritorno alla casa del Padre, “così i corpi sarebbero stati vicini dopo la morte, come gli animi erano stati in vita congiunti”.

Nonostante il convento di Ravello fosse desolato e privo di tutto, persino le suppellettili ecclesiastiche erano difatti indecorose, il padre superiore riteneva che non mancasse il necessario e continuò ad essere, come sempre, fedele all’obbedienza verso il padre provinciale, alla carità verso le anime bisognose e all’amore per la povertà.

Il vescovo lo aveva nominato suo confessore, affidandogli inoltre la direzione spirituale dei due monasteri delle “Sacre Vergini nobili, principal coronamento dell’angusta sua Diocesi”. Il suo instancabile impegno veniva profuso non solo a Ravello ma anche nelle vicine città di Scala, Amalfi, Atrani dove il conventuale si recava per lenire le sofferenze dei corpi e i tormenti dell’anima.

Il Beato era solito trattenersi per lunghe ore dinanzi al SS. Sacramento, tra gemiti e lacrime, sia di giorno che di notte, avendo grande cura della lampada ardente che, con la sua fiamma, segnalava la presenza reale del Signore del Mistero Eucaristico. Questa profonda immersione nel Mistero Eucaristico gli era facilitata a Ravello, dove la sua stanzetta versava, con la finestra, proprio sull’altare maggiore. Sempre ilare e giocondo, malgrado le pessime condizioni di salute, egli celebrava l’Eucaristia con grande emozione e partecipazione. In prossimità della Consacrazione il volto si trasformava mentre lacrime e sudore bagnavano il frate in estasi.

I suoi giorni trascorrevano all’insegna della preghiera, della confessione e della predicazione mentre, pur di sovvenire alle necessità degli ultimi, si privava anche del pane quotidiano, unico mezzo di sostentamento.

L’incontro con “sorella morte” si avvicinava: “Io già vedo che le mie infermità si vanno troppo avanzando; è necessario che io muti stanza tra poco”, diceva sei mesi prima della dipartita.

Nell’ottobre 1711, assalito dalla febbre, trascorse gli ultimi giorni nella sua cella in compagnia del Cristo crocifisso che pendeva dalla parete. Ci sono date che restano scolpite a caratteri maiuscoli nella storia di una Città: il 26 ottobre 1711 le sue ultime parole furono: “Ave Maria, Ave Maria, Ave Maria”. I suoi occhi si chiudevano privando Ravello di un tesoro inestimabile. Al suono della campana del convento, che annunciava la dipartita, il vescovo ordinò che suonassero le campane dell’intera diocesi. Clero, nobiltà e popolo piansero con affetto filiale.

Verso la sera del terzo giorno dopo la morte, il corpo del Beato fu trasportato dall’Oratorio in chiesa per essere sotterrato alla presenza del vescovo e di altri qualificati testimoni. Durante il trasporto, alla vista del Tabernacolo, la salma aprì gli occhi, rimasti sempre chiusi dal momento in cui egli era spirato, e quasi chinò la testa di fronte al SS. Sacramento. Il fenomeno fu osservato da tutti gli astanti e fu interpretato come un segno con il quale il Signore aveva voluto premiare la grande devozione eucaristica del suo servo.

Così una serie di eventi prodigiosi suggellava il pellegrinaggio terreno di un servo del Signore e veniva testimoniata da una memoria del notaio Biagio Imperato, rogata in ora notturna, «tribus luminibus accensis», secondo il suggestivo formulario notarile, e cioè alla luce di almeno tre lumi (senza i quali da prassi non sarebbe stato possibile identificare le parti convenute).

I quattro dipinti settecenteschi, esposti ai lati dell’altare maggiore, ancora oggi ci raccontano con un linguaggio espressivo e la concretezza fisiognomica tipica dell’iconografia bonaventuriana, alcuni episodi della vita e dei miracoli del Beato, esplicati da cartigli didascalici sottostanti alle immagini: la condivisione del pane con i poveri, le guarigioni di Giuseppe Mansi, del canonico Andrea Russo (attraverso il contatto con una reliquia), e dell’infante Andrea De Pino (il cui corpo era stato deposto sulla tomba del frate conventuale).

Un ciclo di tavole realizzato anche al fine di divulgare la conoscenza e il culto di una fulgida figura sacerdotale che aveva lasciato un profumo ineffabile di carità, obbedienza, santità. Ravello brillava di una nuova luce serafica.

redazione
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