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La natura aggraziata e magnifica del Sud nel viaggio a Ravello di Mary Shelley (1843)

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di OLIMPIA GARGANO

Nella prima metà dell’Ottocento, quando ancora Ravello non era diventata una delle mete privilegiate dal turismo internazionale, fu meta di un’escursione a dorso d’asino di Mary Shelley, la scrittrice più famosa del Romanticismo inglese e autrice del romanzo Frankenstein che anticipò la letteratura di  fantascienza.

Della visita di Mary Shelley a Ravello nel 1843  si parlerà giovedì 16 marzo alle ore 10 nella Biblioteca Comunale di  Amalfi, nel corso degli incontri “Scrittrici in  Costa d’Amalfi nella narrativa europea  dei secoli XIX-XX”, organizzato dal Centro di Cultura e Storia Amalfitana per gli studenti del Liceo “Marini Gioia”.

Ne pubblichiamo qui alcune pagine nella traduzione di Olimpia Gargano.

Da: Mary Shelley,  Rambles in Germany and Italy, in 1840, 1842, and 1843, London 1844

Ho sempre avuto un gran desiderio di addentrarmi nel sud dell’Italia, a mio parere il paese più bello del mondo, che alla ricchezza culturale unisce grazie naturali. […]

La sera dorata dava all’aria un piacevole refrigerio e ombre pittoresche alle colline. Era una scena, un’ora, alla quale la Natura assegna un godimento rapido e vivo, simile ai trasporti dell’amore e all’estasi della musica, toccando una corda la cui vibrazione è felicità. Sfinita dalla stanchezza, accettai comunque con rammarico di tornare indietro. La notte con le sue stelle si addensò intorno a noi, e con molta difficoltà i nostri poveri piccoli animali incespicanti ci riportarono in paese.

Quella sera stessa ci dedicammo a preparare l’escursione per il giorno seguente. Avevamo in programma di visitare Ravello e poi scendere lungo il monte fino al mare, prendere una barca per  Salerno e dopo cena tornare a Sorrento.

La nostra esperienza del pomeriggio aveva dimostrato che i poveri asinelli non erano adatti a una spedizione del genere — dovevamo ricorrere all’altra opzione, i portantini — seggiole montate su pali portate da due uomini. Ce ne volevano tre, una per ciascuna delle signore della compagnia. P*** e il suo amico sarebbero andati a piedi.

Ci avevano detto (ma badate che dal mio punto di vista la verità di  tutto quello che avevamo sentito è molto problematica — non avevamo tempo di accertarci dello stato reale delle cose, e per me questa storia riguarda soprattutto i pretesti assurdi che gli italiani tirano fuori quando vogliono dimostrare qualcosa che vada a vantaggio loro e a danno nostro) che i portatori dei portantini erano tutti di un villaggio, Vettici [sic], a qualche chilometro su per la montagna, e che quando servivano venivano mandati a prendere la sera prima e rinchiusi tutta la notte ad Amalfi, per evitare che fossero attirati altrove, non so perché o da chi. Ci dissero che eravamo arrivati troppo tardi per assumerli, e che dovevamo ingaggiare alcuni abitanti del luogo. Servivano  quattro portatori per ogni sedia; trenta uomini si fecero avanti per reclamare l’incarico, e la polizia ci pregò di sceglierne dodici. Dunque i miei amici andarono dalla polizia. La scena era estremamente comica: trenta uomini che vociferavano, insistevano, supplicavano smaniosi. Tra questi c’erano il comandante della barca che doveva portarci a Salerno e i suoi tre figli — erano persone evidentemente rispettabili, e furono subito scelte —  ma quanto agli altri, chi scegliere? I miei amici non facevano altro che ridere; ne indicarono una dozzina sulla base della migliore fisionomia.

Dovevamo partire presto, e perciò ci ritirammo di buon’ora. La notte velava a malapena il mare. Sul molo c’era stato trambusto per tutto il giorno per caricare navi di grano; molti gruppi di uomini erano ancora al lavoro. […]

Spuntò il giorno, e con lui la nostra guida,  le nostre seggiole, i nostri portatori — che folla. I trenta uomini avevano discusso per tutta la notte su chi di loro era stato scelto; la conclusione fu che sarebbero venuti tutti. Ai viaggiatori (e io sono tra questi) succede spesso che il piacere di una gita sia rovinato da una contesa con le guide, i mulattieri, ecc. Spesso è necessario litigare per mille cose, resistere alle estorsioni. Gli animi si inaspriscono, e la divina influenza della natura sulla mente ne viene compromessa. Io ero decisa a non  guastarmi il piacere che avrei potuto carpire durante la mia frettolosa visita ai dintorni della Calabria entrando in discussione con questa gente. Poiché nel nostro gruppo ero io quella che aveva più dimestichezza con l’italiano, il peso della battaglia doveva ricadere su di me. A un tratto decisi che dovevano fare a modo loro, e che anziché infastidirmi mi sarei divertita di fronte a ogni genere di estorsione.

Avevamo la nostra guida: un vecchio impettito, piuttosto loquace, che nei confronti degli altri uomini assumeva una dignità molto divertente. Avevamo i nostri trenta portatori, e in più (su raccomandazione della polizia, per mantenere l’ordine in un gruppo così numeroso) due poliziotti, con moschetti scarichi e scatole di cartucce prive di munizioni. Otto uomini si occupavano della mia sedia — il miglior numero possibile, credo — e via, su per il sentiero roccioso attraverso il burrone, lungo il torrente, sotto i boschi di castagni, salendo sempre più su per il fianco della montagna, mentre lo splendore dorato del sole del mattino proiettava lunghe ombre dalle colline.

Lo scenario è piuttosto diverso da Sorrento; per quanto riguarda il terreno, è ben più sublime. Le montagne sono più elevate e pittoresche, divise da burroni più ampi e profondi che terminano in picchi scoscesi, i pendii rivestiti di magnifiche foreste d’alberi.

E quando raggiungemmo un’altura e ci guardammo intorno… i viaggiatori visitano la Svizzera e raccontano dell’eccelso lavoro della creazione, fra mari di ghiaccio e valanghe e Alpi torreggianti, brulle e scoscese, orlate di neve perpetua. Lì, la natura è sublime, e mostra il potere e la volontà di nuocere. Qui è aggraziata e magnifica al tempo stesso; qui è nostra amica, o meglio nostra eccelsa e munifica regina e benefattrice.

Dall’alto di Ravello contemplavamo un ampio e vario panorama di valli e monti, disseminato tutt’intorno in una pittoresca e infinita varietà; laggiù c’era una spiaggia assolata, racchiusa fra promontori scoscesi, e un placido, ampio mare del sud che si crogiolava nell’afa del mezzogiorno.

La cattedrale di Ravello è un antico e venerando edificio. Nella sacrestia c’erano alcune vecchie pitture di quella che si può chiamare la Scuola Serafica, del genere che avevo ammirato a Firenze. Santi, i cui volti mostrano la loro beatitudine; vergini, la cui dolcezza è piena di maestà, la cui umiltà è quella di chi, ritenendosi ultima, sarà prima. Da allora gli uomini hanno perso la capacità di ritrarre la passione dell’adorazione nel volto. O in età veneranda o nella bella giovinezza, che begli esemplari si trovano nei  primi pittori di esseri grandi e buoni, assorti nel culto grato e gioioso del migliore e più grande di tutti. Una delle immagini più affascinanti di Ravello era un’Annunciazione; la radiosa dolcezza dell’angelo, la casta gioia di Maria diffondevano un’aureola sulla tela. Ci dissero che un inglese avrebbe voluto acquistare questi quadri, ma il vescovo si era giustamente rifiutato di commettere il sacrilegio di venderli.

Il sole senza nuvole splendeva caldo su di noi; c’era comunque un po’ di brezza, e il paesaggio appariva fresco e verdeggiante. Di tanto in tanto la nostra numerosa comitiva rumoreggiava; discutevano di come doveva essere suddivisa la paga. Quando la confusione diventava eccessiva, la nostra guida — sovrana in tutta la sua presunzione — gridava: “Silenzio, silenzio”, con voce autoritaria, e per un attimo il flusso delle voci si placava. Tutti si comportavano bene nei nostri confronti. Chiedemmo ai nostri sbirri dall’indole buona e dalle armi inoffensive se al momento c’erano banditti in Calabria. Ci assicurarono che era tutto tranquillo. E nel caso ci fosse qualche disordine, loro venivano mandati a ristabilire l’ordine — con quali mezzi non saprei, se non che l’aspetto di questi uomini era particolarmente placido e tranquillo.

La discesa fu molto ripida, rampe su rampe di ripidi gradini intagliati nella roccia. Era troppo caldo e faticoso per pensare di camminare, e troppo pauroso per essere trasportati in discesa. Tuttavia, girando le sedie e procedendo a ritroso ce la cavammo senza troppo allarme.

Quando raggiungemmo la spiaggia si era levato il ponente. Il mare scintillava calmo e libero.

 

redazione
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