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Il buon cibo di origine medievale: Maccaroni, Gnocchi e ‘Ndunderi

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di GIUSEPPE GARGANO

Il termine osco macahon sembra essere alla base del vocabolo moderno maccherone. La parola arcaica, formatasi in area campana, passò nella lingua latina e fu connessa a maxilla, la mascella, organo fondamentale nella masticazione dei cibi. Quindi passò nel teatro attraverso le commedie atellane e poi in quelle romane, esaltandosi nell’onomastico Maccus, riferito al servus callidus (servo astuto) perennemente affamato, antesignano della maschera di Pulcinella.

Ancora una volta in area campana ma ora in età altomedievale incontrava fortuna la radice mac nella forma di maccaronus, termine riferito ad una forma di pasta fresca ottenuta dall’impasto di farina e di acqua. La sua produzione era collegata all’attività molitoria; infatti attigua ai mulini ad acqua delle zone interne della regione sin dal X-XI secolo è attestata l’iscla de maccaronis, un terreno ricco d’acqua dove si fabbricavano i maccaroni. La loro realizzazione dovette avvenire anche nel territorio amalfitano, come sembra provare indirettamente l’onomastico Maccarone attribuito ad un membro della nobile famiglia scalese dei d’Afflitto.

Boccaccio lascia intendere che i maccaroni dovevano essere una sorta di gnocchi, affermando che Calandrino nel paese di Bengodi avrebbe potuto arrotolarsi su di una montagna di tale forma di pasta alimentare.

Nel corso del Cinquecento erano attestati a Minori i maccaroni insieme a vermicelli e a tagliarelli, di certo ormai paste secche; doveva trattarsi nella fattispecie di maccheroni di zita, lunghi e bucati, che si potevano spezzare per la cottura.

Una ricetta meridionale del primo Quattrocento illustra la realizzazione degli gnocchi e il modo della loro cottura:

«Affare nochi – Chi vole fare nochi, tolla farina et molglica de pane, et metterace uno poca de acqua, et toy le ova et desbacti con essa, et agi uno talgliaturo bagnato et falli mectere a bollire, et quando sondo cocti, tralle fora et burlali suso del cascio assay». Gli gnocchi sono fatti con farina, mollica di pane, un po’ di acqua e uova sbattute; sono quindi sparsi su di un tagliere bagnato, dopo esser stati prodotti a forma di cubetti o palline. Si mettono a bollire e quando sono ben cotti, si tirano fuori dalla pentola e si impiattano con formaggio sparso di sopra.

Lo storiografo erudito sei-settecentesco Francesco Maria Pansa sottolinea la buona qualità degli gnocchetti prodotti a Minori: essi dovevano corrispondere a quella specie di pasta fresca nota tradizionalmente con il nome popolare di ‘ndunderi.    

Secondo l’indimenticabile esperto di cucina antica Ezio Falcone, gli ‘ndunderi sarebbero derivati dalla “polenta caseata di farro” o dalla farina subacta, impastata con latte cagliato e con il lattice di fico; generate delle palline, queste venivano cotte in acqua bollente. Gli ‘ndunderi minoresi sono tuttora il risultato di un impasto di farina e latte cagliato, a volte con l’aggiunta di ricotta vaccina, denominata iuncata in area amalfitana, poiché conservata in piccole ceste di giunco. Formato un lungo cordone poco sottile, si procedeva al taglio in tocchetti resi poi concavi mediante la leggere pressione di un dito o due. Venivano quindi conditi, prima dell’invenzione della salsa di pomodoro, con cacio e spezie o con una salsa verde composta da prezzemolo, aglio, qualche fogliolina di finocchietto, pecorino, noci e olio.

A partire dal XIX secolo l’impiego ormai diffuso della salsa di pomodoro vide la nuova versione indicata dal condimento mediante salsa di ragù di carne. Narra la tradizione che, in occasione delle festività della Trofimena (5 e 27 novembre, nonché 13 luglio), quando la processione aveva raggiunto il litorale, era il momento di gettare gli ‘ndunderi nella caldaia, da cui il detto: «’A Trofomena all’ogne ‘o mare, mine ‘e ‘ndunderi ‘a cavorara!».

redazione
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