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Scurati su CorSera: «A Ravello, nella villa amata da Greta Garbo, lontano dal caos dei turisti»

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Proponiamo ai nostri lettori il racconto dello scrittore Antonio Scurati, cittadino onorario di Ravello, pubblicato dal Corriere della Sera di oggi, lunedì 15 agosto. Un articolo in cui il Premio Strega 2019 scatta una fotografia della Ravello turistica del post pandemia, evidenziando criticità e punti di forza attraverso la sua personale lettura.

Cento anni fa in questo giorno gli italiani scoprirono il mare. Nelle estati del ventennio fascista, infatti, grazie a treni popolari a prezzi scontati — i «treni di ferragosto», anch’essi parte del progetto totalitario di Mussolini — migliaia di famiglie residenti nell’interno del Paese poterono per la prima volta raggiungere le spiagge delle coste e immergere i corpi scarni di un popolo miserabile nelle acque del Mediterraneo. Duemila anni prima era stato l’imperatore Augusto a istituire la festa di mezza estate (Feriae Augusti), intesa a celebrare la fine degli sfiancanti lavori agricoli dei contadini italici, devoti nel sangue e nel sudore alle divinità della terra, tra danze sfrenate, corse di cavalli, crapule e mance dei padroni.

E oggi? Cosa ci dice oggi di questo nostro popolo inetto al lavoro dei campi eppure ipernutrito la feria d’agosto? Quale volto si scorge nello specchio dell’estate più calda di sempre giunta al suo zenith vacanziero? Cerco quel volto aggirandomi tra le antiche ville, le piazze, le balze meravigliose di Ravello, un paese collinare della Costa d’Amalfi, affacciato a strapiombo sul mare del mito. È in questo luogo incantato, concesso alla mia esistenza da un destino benevolo, che io ho creduto fin da bambino di poter ritrovare, estate dopo estate, la felicità — breve felicità e, al tempo stesso eterna — promessa a ogni italiano dall’idillio mediterraneo.

Non sono certo l’unico, non sono certo il primo, e nemmeno l’ultimo. Da quasi due secoli, oramai, viaggiatori da tutto il mondo giungono a Ravello in cerca di armonie perdute, dei climi dolci che inducono al sonno, del matrimonio perfettamente riuscito tra cultura e natura. È lunga la lista degli ospiti illustri: da Wagner (che qui credette di trovare il magico giardino di Klingsor) a Forster, da Escher a D.H. Lawrence, da André Gide all’ultimo, indegno Re d’Italia che in un antico palazzo di questo borgo abdicò a favore del figlio. La lista delle celebrità si allunga fino ai giorni nostri passando per Jackie Kennedy, Greta Garbo, Pier Paolo Pasolini e Gore Vidal, il grande scrittore americano vissuto per trent’anni alla Rondinaia, piccola, meravigliosa villa strappata alla roccia a picco sul mare.

Ed è proprio su una frase di Gore Vidal che rifletto mentre osservo la piazza Duomo dai tavolini del Caffè San Domingo, dove lo stesso Vidal era solito sostare per le sue colossali bevute. Vidal parla di «magia» e definisce il costone di roccia su cui sorge Ravello come «il più bel luogo di tutto il mediterraneo». Lui, però, ci arrivò per la prima volta nel dopoguerra su di una jeep dell’esercito americano assieme a Tennessee Williams e ci abitò con lo sdegno aristocratico dell’espatriato di lusso e di squisita cultura («Io non sto a Ravello, sto alla Rondinaia», era solito ripetere anche se a nessuno piace ricordarlo).

Celebrità, viaggiatori e lo sciame turistico

Io, invece, seduto allo stesso tavolino che fu di Gore Vidal, in questo ferragosto dell’anno del signore 2022, non scorgo eredi di quella stirpe di eleganti, eccentrici e raffinati viaggiatori. Solo banale sciame turistico. Centinaia, migliaia di turisti, quasi tutti stranieri, che mai come quest’anno, spinti da una frenesia post-pandemica, hanno preso d’assalto questa linea costiera (e tante altre in Italia). Molti di loro sono ricchi inglesi, americani, indiani, giunti fino a questa sponda remota da vite dorate. Eppure il privilegio di censo non li preserva dall’essere meramente turisti. Il marchio del turista è impresso a fondo nei loro modi scomposti, nei loro abiti griffati, nei loro transiti veloci. D’altro canto, oramai lo sappiamo tutti. La degradazione del viaggiatore a turista è un fenomeno talmente macroscopico, epocale e risaputo da contagiare con la sua banalità qualsiasi tentativo di descriverlo o di criticarlo. Eppure io, con ostinazione puerile, non mi rassegno alla ben nota massificazione omologazione cui la tarda modernità sembra inesorabilmente condannare le antiche contrade della nostra delicata, fragile e perduta bellezza.

I rovi e la cultura di chi non ha cultura

Il mutamento in atto non è soltanto socio-economico, è anche antropologico e, più ancora, paesaggistico, climatico. La Costa d’Amalfi, dichiarata «patrimonio vivente dell’umanità» dall’Unesco, è uno di quei luoghi in cui l’orto si è fatto giardino, per necessità e con grazia. La bellezza dei suoi terrazzamenti coltivati a limoni è, però, oggi avviata al degrado. Una buona metà dei limoneti sono abbandonati ai rovi ma pochi sembrano dolersene (un albergatore mi ha detto: «Per noi non fa differenza; visti dalle terrazze panoramiche dei miei alberghi, anche i rovi sono verdi come i coltivi»). L’acqua del mare è inquinata (i depuratori si fanno attendere da decenni), la viabilità impazzita, la siccità inaridisce perfino gli agrumi , favorisce gli incendi (sempre dolosi, piaga atavica) e, poi, quando finalmente piove, com’è accaduto ieri, le condutture fognarie, gravate da scarichi abusivi, rigurgitano sulle vie pubbliche torrenti d’acqua alluvionali.

Quanto alla cultura, se fino allo scorso decennio il Festival di Ravello ne è stato un centro propulsore d’importanza nazionale, ora, affidato a personaggi pittoreschi il cui unico merito è il supino asservimento al potente di turno, si limita ad acquistare a peso d’oro qualche grande nome senza un progetto, un’identità, lo straccio di un’idea. Insomma, la cultura di chi non ha nessuna cultura. Eppure, a dispetto di tutto ciò, questa del 2022 è un’estate formidabile per il business turistico. Ravello conta poco più di 2.000 abitanti e quasi altrettanti posti letto (più di 200 case vacanze, o affini, dichiarate e circa un centinaio clandestine!). E sono tutte piene fino all’ultimo posto letto nonostante un alloggio in b&b arrivi a costare 400 euro a notte.

Un popolo di camerieri

Come si spiega? Anche con il fatto che da queste parti l’anno del signore 2022 non stabilirà soltanto il record assoluto del caldo asfissiante ma anche quello dei matrimoni. Con i suoi 2.500 abitanti scarsi, quest’anno Ravello ospiterà ben 500 matrimoni di promessi sposi giunti da tutto il mondo per procurarsi un album fotografico nuziale con impareggiabile vista mare. Proprio in questo momento, uno dei tanti rinfreschi nuziali si svolge tra i tavolini di uno dei bar della piazza. Sono inglesi, calati da qualche brughiera piovosa con tutto il loro seguito di amici e parenti. I maschi del branco tracannano e rumoreggiano, le femmine agghindate a festa danzano scalze in preda a un raptus esotico, gli indigeni figurano in posticci costumi folklorici accompagnando la recita al suono del mandolino.

Mi guardo attorno. Cerco una qualche espressione di turbamento nello sguardo dei pochi ravellesi o italiani presenti. Un qualche indizio di consapevolezza riguardo al madornale scollamento tra malinconica realtà ed euforia turistica. Non lo trovo perché lo spettacolo della riduzione del Paese a fondale è divenuto oramai abituale. Mi sforzo, allora, di orecchiare le conversazioni. Nessun accenno alla crisi politica, alla demenziale campagna elettorale agostana; nessun accenno alla crisi climatica (figurarsi la pandemia, completamente obliterata). Soltanto qualche abusata lamentela per il caldo, o per la pioggia. È, dunque, questo che siamo diventati? Un «popolo di camerieri» (come sentenziava con disprezzo proprio Mussolini quando ci voleva fascisti e guerrieri)? Oppure, a parti invertite, un popolo di vacanzieri compulsivi, molli, satolli e indifferenti a tutto, dediti ai riti epuratori del bagno di mare, di sole e dell’aperitivo in piazzetta, devoti soltanto alle divinità idiotiche del ferragosto?

Per chi non si rassegna: Villa Cimbrone

No, non mi rassegno. Non mi arrendo e salgo a Villa Cimbrone. Se ancora vive da qualche parte il genius loci delle dolci estati mediterranee precedenti la maledizione degli anticicloni africani, è lì che lo troverò. A differenza di altre meraviglie di Ravello, Villa Cimbrone, situata sullo sperone di roccia all’estremità meridionale del promontorio su cui sorge il paese, devi guadagnartela. E, così, mentre ascendo lungo la ripida stradina che vi conduce, incrocio lo sciame che fa ritorno verso la piazza. Molti hanno lo sguardo estasiato ma non tutti. Si affacciano qua e là sbuffi e mugugni. Appena varcato l’antico portale d’ingresso, ne ho una dimostrazione: una coppia di energumeni biondi pretende con protervia la restituzione del prezzo del biglietto (5 euro) protestando in un inglese maccheronico. «What is there to see!?» («Cosa c’è da vedere?!»). Manco a dirlo, sono russi.

Cosa c’è da vedere a Villa Cimbrone? La Bellezza. Semplicemente la Bellezza.La villa, ricostruita a inizio Novecento da Lord Grimthorpe su rovine risalenti all’anno mille, è inserita in un vasto parco impreziosito da squisiti giardini e da un reticolo di pergolati, statue, padiglioni, tempietti e grotte che nei loro rimandi segreti disegnano un esoterico inno all’erotismo neopagano. Al culmine di tutto questo, oltre un confine simbolico segnato dalla statua della dea Cerere, si apre la celebre terrazza dell’infinito. Lì, ammonito da erme che, come notò Simone de Beauvoir, guardano lo spettatore «voltando sdegnosamente le spalle alla bellezza assoluta», lo sguardo stordisce perdendosi in una vastità piena, mai vuota, che va da capo Palinuro al fantasma di Capri. La potenza di questo luogo è tale che, chiunque lo abbia visitato anche una sola volta, qualunque sia la vita che conduce, in qualunque grigio angolo di mondo, potrà sempre farvi ritorno con il ricordo traendone il conforto necessario a vivere ancora: la consapevolezza che la Bellezza esiste.

Credo sia questa la promessa, mantenuta, di Villa Cimbrone (e, a dispetto di tutto, la promessa di Ravello): ti prometto che la Bellezza esiste e, con un po’ di fortuna, esisterà sempre. Eppure, nemmeno il dono supremo dell’indimenticabile pare sia sufficiente a fugare l’immenso equivoco del turismo di massa. Giorgio Vuilleumier, attuale proprietario che negli anni novanta sottopose insieme alla sua famiglia il parco e la villa a un pregiato restauro dopo decenni di abbandono avviando anche un magnifico hotel de charme, mi racconta aneddoti tragicomici di turisti arroganti e distratti che si lamentano di non poter partire per escursioni in barca direttamente dal giardino dell’hotel posto a 400 metri sul livello del mare. D’altro canto, Giorgio mi racconta che moltissimi turisti oramai scelgono la destinazione della loro prossima visita navigando in internet nei quindici minuti d’attesa del taxi che ve li condurrà.

Sorrido amaramente. Niente, però, può oramai toccarmi. Villa Cimbrone mi ha reso invulnerabile al malumore. E, poi, sta calando la pace della sera. I portoni di Cimbrone si chiudono allo sciame (la villa chiude all’imbrunire) e io posso aggirarmi indisturbato nel parco lasciandomi sorprendere dalla lapide che ricorda una fuga d’amore tra la divina Greta Garbo e Leopold Stokowsky i quali, nel 1938, sebbene entrambi tendenzialmente omosessuali, cercarono qui rifugio dai clamori e clangori del mondo. Nemmeno il pensiero che soltanto io e i pochi privilegiati clienti dell’hotel possiamo godere di questa pace riesce a guastarla. Sì, è vero, le delizie del ristorante stellato sono per pochi, i raffinatissimi lussi delle magnifiche, enormi camere da letto (tutte diverse tra loro) sono per pochi ma la bellezza di Villa Cimbrone e di Ravello è a disposizione di chiunque abbia ancora occhi per vederla. Magari questa bellezza non ci salverà ma ci terrà la mano, dandoci conforto, quando giungeremo al cospetto della quiete fatale di cui è l’immagine.

redazione
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