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Dante “personal trainer”: ci insegna a pensare con la nostra testa, a difendere il valore supremo della libertà

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di NOVELLA NICODEMI*

“Ma perché dobbiamo studiare Dante prof??” Quante volte nella mia esperienza di docente mi sono sentita rivolgere la stessa spiazzante e disarmante domanda! Dante è il nostro Shakespeare, con la differenza che i giovani anglosassoni sono ben lieti di mandare a memoria e declamare interi passi delle opere del beneamato William. Che siano orientati verso un mestiere o che abbiano deciso di intraprendere studi universitari conta ben poco. Fa parte della loro identità e ne vanno fieri. Da noi la conoscenza puntuale dei versi del Ghibellin fuggiasco è stata spesso confinata nei Licei, in primis nel Liceo classico fuori dal quale diventava quasi inutile promuoverne lo studio. Retaggio culturale che fortunatamente in questi ultimi anni sta scomparendo a vantaggio di una sempre più capillare attenzione al Sommo poeta. Per quello che riesce a dare a tutti noi italiani (e al mondo intero) in termini di arricchimento culturale, valoriale, linguistico e spirituale.

Il viaggio di Dante, ancora vivo, nel mondo delle anime è una fictio, una finzione letteraria in cui chi legge stringe un patto narrativo con chi scrive. Noi lettori accettiamo appunto di credere che nel mondo dei morti, accompagnato da Virgilio e poi da Beatrice, il Nostro incontri cani a tre teste, arpie, alberi da cui fuoriescono sangue e parole, fiamme biforcute che avvolgono anime di peccatori, demoni, angeli, e Lucifero in persona… E prima che il solito buontempone, che in classe non manca mai, avanzi il sospetto che l’Alighieri, per avere tali visioni, fosse stato rifornito di roba buona da qualche pusher, affermo che no, non si era fumato niente: la sua droga era la sua passione per la Giustizia e per la Letteratura. “Caron dimonio, con occhi di bragia‘, il traghettatore delle anime, (come poi altri) cerca di impedire questo viaggio fatale, ma Virgilio lo liquida con un secco e perentorio “Vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare“: è Dio che lo ha voluto e consentito, affinché sia da exemplum per l’intera umanità. Sono le forti passioni, quelle viscerali, a scatenare in modo naturale l’adrenalina della fantasia. Passioni devastanti come la storia d’amore tra Francesca da Rimini e suo cognato Paolo (uccisi dal marito di lei Gianciotto Malatesta) che porta alla dannazione eterna tutti e tre i protagonisti: un sentimento vissuto come forza invincibile e irrinunciabile se davvero “Amor ch’a nullo amato amar perdona“. Per la serie: se io amo una persona, lei non può non corrispondermi. E la discussione letterario-filosofica che si innesta su questo assunto è nutrimento vitale per degli adolescenti. Finché si parla di amore, non sarà difficile suscitare il loro interesse. Ma poi c’è la questione della religione. Non è semplice far capire che nel Medioevo la vita di ogni uomo era permeata completamente dalla dimensione religiosa, così come oggi la vita di un uomo del ventunesimo secolo è permeata dalla tecnologia. Parlare di papi e imperatori era comune come oggi parlare di Putin, Trump, Biden, Papa Francesco e di tutti i potenti del mondo. Contestualizzare la Comedìa in una prospettiva storica e storicistica è la prima operazione da fare.

Nel Medioevo Papa e Imperatore avevano ognuno i propri followers (parallelo ardito ma efficace) e anche nella stessa città i dissidi tra le fazioni erano violentissimi. Un po’ come tra le tifoserie in un derby allo stadio. E Dante sarà vittima proprio delle violentissime lotte civili che dilaniavano Firenze in cui, a partire dal 1301, si erano impadroniti del potere i guelfi neri, capeggiati da Corso Donati. Questi ultimi saranno i principali responsabili, oltre al Papa Bonifacio VIII, dell’accusa di baratteria che arrivò come una mannaia sulla testa del poeta che era stato inviato a Roma come ambasciatore. Da questa infamante accusa di corruzione nell’esercizio delle cariche pubbliche Dante non intese discolparsi. Condanna: il rogo. Questa la causa del dolorosissimo esilio. Lasciare Firenze, casa, affetti, luoghi del cuore e dell’anima. Per sempre. Senza portare nulla con sé se non il proprio cervello, la memoria, la capacità linguistica e immaginativa. Tanto bastò per creare un poema di cento canti.

“Cioè volete dire che se non lo avessero esiliato non avrebbe mai scritto la Commedia e noi non la dovremmo studiare oggi? Infami, due volte infami questi guelfi neri, prof!!” Di fronte a questa osservazione, che si origina da un moto di autentica e genuina rabbia, lascio abitualmente scorrere le sane risate come il fluido più propizio per l’apprendimento.

In una Firenze dove dilaga la corruzione politica e dei costumi, in una ‘serva Italia’ (che il Nostro impara a conoscere da vicino nello straziante pellegrinaggio di corte in corte) di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta/non donna di provincie ma bordello, la gente di Chiesa “che dovrebbe esser devota” – ma nella curia papale “Cristo tutto dì si merca” – ha un posto assicurato all’Inferno mentre i due soli, i due campioni della fede, San Francesco e San Domenico risplendono in Paradiso. L’ingiusta sorte del Sommo poeta è richiamata per analogia dall’imperatore Giustiniano nel canto VI del Paradiso quando parla di Romeo da Villanova, che amministrò rettamente la corte di Berengario IV di Provenza, ma suscitò l’invidia dei provenzali e, invece di ricevere gratitudine, fu immeritatamente calunniato. Di qui il suo esilio: partì povero e vetusto, costretto a mendicare la sua vita ‘a frusto a frusto’, ma con animo fiero e dignitoso.

Lo stesso fece Dante, come leggiamo nei versi tra i più commoventi del poema: le parole dell’antenato Cacciaguida che gli presagisce l’esilio (ovviamente si tratta di una falsa profezia perché Dante narratore ha già subito l’esilio che Dante personaggio deve ancora affrontare) la cui prima e amara conseguenza sarà lasciare “ogne cosa /diletta più caramente”.

Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale gli dice Cacciaguida… E così sarà, fin quando il Sommo arriverà alla corte dei Da Polenta a Ravenna e qui morirà il 14 settembre del 1321.

Dante con la Comedià ci insegna a vivere ma anche e soprattutto a morire con dignità. La dignità di chi aveva idee precise, certezze non scalfibili, monolitiche, e la forza di quelle idee lo sosteneva e sostentava proprio nel periodo più difficile. Ci mostra anche la straordinaria forza delle parole che quelle idee veicolano, la capacità linguistica duttile e malleabile che si presta a trattare qualsiasi argomento, dallo stile basso a quello elegiaco al tragico. Impareggiabile la maestria del Divin poeta da cui non si può che pescare, attingere, trovando tesori incommensurabili… Ci insegna a esercitare la memoria, perché non fa scienza, sanza lo ritenere, avere inteso. Uno dei concetti più ostici per i miei studenti. Perché fare la fatica di imparare a memoria? Tanto poi, tempo una settimana, non si ricorda più nulla. E’ proprio questo il punto. Se memoria deve essere, deve essere esclusivamente a lungo termine. Cultura non è ciò che semplicemente si capisce, ma è quello che si trattiene dentro la testa e il cuore per sempre. Come un tesoro prezioso da custodire.

Dante l’ho sempre visto, tra gli altri aspetti, come un coach, un personal trainer. Ti insegna a farti tetragono, a resistere ai colpi della fortuna. Ti fa capire che la parola è davvero poetica nel senso etimologico del verbo greco poieo: crea, costruisce dei mondi, altrettanto reali rispetto a quello in cui viviamo, che ci sopravvivranno. Ci ammonisce che da un momento all’altro potremmo perdere tutto ciò che abbiamo di più caro: ma quello che c’è nella nostra testa e nella nostra anima non lo perderemo mai. Ci fa scoprire che la letteratura ci può far vivere tante vite parallele. Ci invita a pensare con la nostra testa, a non piegarci mai, a mantenerci saldi sulle nostre posizioni, se le riteniamo giuste, a difendere il valore supremo della libertà.

“Fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguire virtute e canoscenza è il cuore del discorso che Ulisse fa ai suoi compagni per incitarli a seguirlo in una impresa impossibile oltre le colonne d’Ercole. La sete di conoscenza, il desiderio, la curiosità di sapere spingono Ulisse a voler superare i limiti dell’essere umano. A esercitare un diritto alla libertà che da subito si rivela autodistruttivo ma che appare insopprimibile: il ‘folle volo’ verso l’ignoto è trascinante ben più del canto delle Sirene. Conoscenza è libertà.

“Libertà va cercando ch’è sì cara/ come sa chi per lei vita rifiuta: così Virgilio esorta Catone l’Uticense a non impedire il viaggio di Dante. Un distico che si stampa nel nostro DNA. Libertà di esprimere le proprie opinioni e di non sottostare, anche sacrificando la propria vita, ad alcuna dittatura, ma anche libertà spirituale dal peccato. Cosa poi si intenda per peccato, va ricondotto all’epoca storica di riferimento. Un autore medievale è medievale e basta, non può essere modernizzato. E’ semplicemente universale, senza tempo. Per capirlo a fondo dobbiamo calarci in un’epoca in cui ancora si pensava che la Terra fosse al centro dell’Universo. Dante incarna il pensiero filosofico occidentale: l’individuo, il valore sacro della persona. E di tutto ciò che ci rende umani. Rappresenta le nostre radici culturali più profonde. Per questo e altre mille ragioni va amato, studiato, ricordato, celebrato.

*docente in Italiano e Storia presso il Liceo “De Filippis-Galdi”, indirizzo Economico Sociale, di Cava de’ Tirreni

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