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Lutto nel mondo della cultura: la Costiera e il Cilento dicono addio al prof. Liuccio

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Da Roma giunge la notizia della morte, a 89 anni, del professor Giuseppe Liuccio.

Nato a Trentinara il primo maggio del 1934, è stato docente di latino e greco presso il Liceo Classico “Matteo Camera” di Amalfi. Presidente dell’Azienda di Soggiorno e Turismo di Amalfi negli anni Sessanta e di Maiori nei Novanta, ha operato nel solco della cultura. Giornalista, ha scritto per le più importanti testate e vantato collaborazioni con la Rai. Ha ottenuto numerosi premi letterari e giornalistici nazionali ed internazionali. Nel 2004, per la sua attività letteraria e poetica, la Presidenza del Consiglio dei Ministri gli ha assegnato il Premio della Cultura. Nel 2007 è stato nominato Cavaliere della Repubblica Italiana.

I funerali domani, mercoledì 19 luglio, nella basilica Paleocristiana di Capaccio Paestum alle 17,30.

Nel 2016 il Comune di Minori gli ha conferito la cittadinanza onoraria: Liuccio è stato uno dei promotori più convinti di Minori città del gusto. Ha ricoperto il ruolo di consigliere d’indirizzo della Fondazione Ravello in anni difficili. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo “Terre d’amore: Cilento e Costa d’Amalfi”, un libro diviso in due parti: la prima riguarda il Cilento, la seconda, la Costa d’Amalfi. I destinatari delle missive sono, tra gli altri: Palinuro, Parmenide, Spartaco, Carlo Pisacane, Costabile Carducci, Andrea Torre, Paolo Prisciandano, Giovanna D’Aragona, Flavio Gioia, Mansone I, Lorenzo d’Amalfi, Masaniello, Matteo Camera, Pietro Scoppetta, Francesco Amodio.

Nel 1968, da presidente dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo, fu promotore della mostra sull’Arte Povera a cura di Marcello Rumma che si tenne negli Arsenali dell’antica Repubblica Marinara. Quella mostra si rivelò di straordinaria importanza tanto da cambiare il corso della storia delle avanguardie artistiche a livello mondiale.

Fu il professore Liuccio a portare Quasimodo ad Amalfi. Era il 14 giugno 1968. L’ultimo giorno di Salvatore Quasimodo. Il premio Nobel per la letteratura era stato invitato nell’antica Repubblica Marinara per presiedere la giuria del premio nazionale di poesia, organizzato da Giuseppe Liuccio, presidente dalla locale Azienda Autonoma Soggiorno e Turismo, e dalla redazione della rivista napoletana “Uomini e Idee”.

Alloggiava presso l’albergo Cappuccini (oggi hotel Convento) nella stanza numero 26. Quel giorno, poco prima di mezzogiorno, fu colpito da un malore improvviso. In mattinata, verso le dieci, la commissione si riunì nel refettorio dell’albergo, per decidere gli ultimi particolari del premio insieme. «Dopo che il verbale dei lavori era già stato firmato da tutti, Quasimodo, fattosi improvvisamente cupo, si alzò dicendo che lo aveva preso un forte mal di testa» scrisse Piero Chiara sul “Corriere dell’Informazione”. Insieme alla segretaria e compagna del poeta, Annamaria Angioletti, il giornalista fu testimone diretto dell’accaduto. Furono, quelli, i primi segni dell’ictus che lo avrebbe ucciso di lì a qualche ora, e il racconto di Chiara a questo punto si fa drammatico e incalzante: «Era in camera da pochi minuti, quando venne di corsa il portiere a chiamarmi. Andai al numero ventisei e trovai Quasimodo disteso in letto e con la testa come confitta al cuscino da una lama di dolore. Annamaria Angioletti, la segretaria, fece subito chiamare un medico, mentre io gli prestavo le prime e più semplici cure. Quasimodo a un certo momento disse che non vedeva più… Il portiere non riusciva a trovare un medico e io percorrevo continuamente il lungo corridoio, fino a che fu annunciato l’arrivo del dottor Luca Iovene».

«È inutile. Morirò prima… Questa è l’emorragia cerebrale» disse il poeta al giornalista. L’autodiagnosi e la consapevolezza di essere alla fine, come è raccontata da Piero Chiara, fu ripetuta più volte, con lucidità, da Quasimodo, il quale ricordava bene gli stessi sintomi di quel male, osservati nel suo amico, il pittore Renato Birolli, morto per un ictus nel 1959, lo stesso anno del Nobel per il poeta siciliano. Nel 1966 era già stato Quasimodo, invitato da Giuseppe Liuccio, ad Amalfi, che egli chiamò «il giardino che cerchiamo sempre e inutilmente dopo i luoghi perfetti dell’infanzia», come recita la nota epigrafe da lui dettata e murata nella Porta della Marina, e risale a quell’anno anche la rara plaquette del suo “Elogio di Amalfi”, stampata in tiratura limitata dalla locale Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo.

Ma in quell’ultimo fatale soggiorno amalfitano del giugno 1968, era giunto già stanco, provato dal viaggio, dal caldo, dalla sua iperattività, in giro per il mondo, nonostante un precedente infarto avuto a Mosca dieci anni prima. Dopo la visita il medico Iovene gli praticò un abbondante ma vano salasso, che procurò solo un sollievo momentaneo. Il racconto puntuale di Chiara ricorda lo zelo adottato dal dottore per tentare di salvare la vita al poeta, ma, in assenza di qualsiasi presidio ospedaliero in costiera, questi si vide costretto a telefonare all’Ospedale Ruggi di Salerno per chiedere consiglio e aiuto al neurologo professor Canger. Quando, dopo due ore, il neurologo arrivò, Quasimodo era entrato già in coma. «Il professore, dopo aver telefonato alla clinica “Mediterranea” di Napoli, e aver parlato col professor Castellano per concordare un intervento, ordinò il trasporto del morente a Napoli. Non si poté trovare una barella. Sotto il sole, sopra un asse da stiro, portato da cuochi e camerieri, Quasimodo fu avviato lungo le interminabili scale che scendono dall’albergo alla strada costiera.

Era stata chiesta invano un’autoambulanza: una Fiat 1500 fu tutto quanto si poté trovare per non perdere minuti preziosi. La macchina partì, preceduta da un’altra macchina, con i medici, Giuseppe Liuccio e Buttitta».

È inutile aggiungere che Quasimodo arrivò a Napoli praticamente già morto, com’era prevedibile, data la tragica assenza di strutture sanitarie locali e considerata la quantità di ore perse inutilmente dopo il primo manifestarsi del male. Ma noi ci permettiamo di aggiungere qualcosa, che è più di una illazione postuma, credendo di conoscere l’indole del poeta attraverso le sue opere: anche se si fosse strappato alla morte il corpo, con la devastazione subita dal suo cervello, le gravi, inevitabili, menomazioni della parola e dell’esistenza, avrebbero costituito un martirio insopportabile per lui «aperto al sole della vita / memore della felicità antica / che sempre ispirò la sua poesia», ricordando le parole di Alfonso Gatto, scritte nel marmo all’hotel Cappuccini.

Nell’ora della morte e nelle ultime frasi Quasimodo ebbe il sembiante di un antico stoico greco, dice Piero Chiara, con la sua bella prosa: «Senza segni di disperazione, consapevole quasi con disprezzo per la banalità con la quale gli appariva la morte, davanti al Mediterraneo che lo abbagliava dalla finestra spalancata. Nessun saluto, nessun rimpianto, da buon pagano».

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