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Quando i morti si seppellivano nelle chiese

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di DONATO SARNO

Il pensiero dei defunti richiama subito alla nostra mente, in via quasi automatica, l’immagine dei cimiteri, ossia di quelle aree, lontane dai centri abitati e circondate da siepi e da cipressi, in cui vengono custoditi, in tombe o loculi, i resti mortali di quanti sono vissuti prima di noi ed in cui noi ci rechiamo, specie in occasione della commemorazione del 2 novembre, per far visita ai nostri morti. Non sempre invero riflettiamo sul fatto che i cimiteri, per come oggi li conosciamo, esistono solo da epoca relativamente recente, giacché con l’affermarsi del Cristianesimo e fino agli inizi del XIX secolo i defunti venivano seppelliti di regola esclusivamente all’interno delle chiese. I funerali, dunque, consistevano nel trasporto della salma fino alla chiesa, dalla quale essa, terminato il rito funebre, non sarebbe mai più uscita.

Nel regno di Napoli fu Gioacchino Murat, agli inizi dell’Ottocento, che, sull’esempio di quanto aveva stabilito in Francia il cognato Napoleone con l’editto di Saint Cloud del 1804, vietò la sepoltura nelle chiese e ordinò la costruzione di cimiteri in cui riporre i cadaveri. Tali disposizioni suscitarono violenti disappunti, registratisi anche in Costa d’Amalfi: da un’inchiesta condotta nel 1811 risultò che il popolo guardava “con un’avversione furibonda il divieto di seppellirsi nelle chiese”, in quanto era convito che solo nelle chiese potesse porsi “in contatto con la divinità”. In effetti il seppellimento nelle chiese si era diffuso proprio allo scopo di collocare i corpi dei fedeli vicino alle reliquie dei santi e agli altari dove si celebravano i sacri riti in suffragio delle anime. La morte era in quei tempi vista e percepita in un’ottica cristiana e nelle nuove regole che volevano introdursi il popolo, profondamente religioso, vide un ulteriore prova dell’empietà francese: si diceva che Murat, non contento di aver soppresso conventi e di aver introdotto leggi contrarie alla Chiesa ed agli antichi costumi, intendeva finanche togliere alle spoglie dei fedeli il diritto di riposare nei templi insieme ai loro avi. Peraltro sia a motivo dell’opposizione popolare sia per le oggettive difficoltà tecniche ed economiche di costruire in breve tempo tanti cimiteri, si riuscì soltanto a vietare la sepoltura nelle chiese parrocchiali: in attesa della costruzione dei cimiteri, cosa che avrebbe richiesto diversi anni, e per cercare di non urtare del tutto l’opinione pubblica, i cadaveri furono riposti nelle chiese dei monasteri soppressi o nelle chiese abbandonate o comunque nelle loro strette adiacenze.

Quando nel 1815 ritornarono a Napoli i Borbone, molte furono le pressioni per ritornare all’antica usanza, ma i sovrani ritennero che ragioni igieniche non lo permettevano; i cimiteri perciò andavano costruiti, ma dovevano mantenere un carattere sacro, con la presenza al loro interno di chiese e di terreno benedetto (onde il nome di camposanti); d’altronde la stessa parola cimitero (di origine greca, significante dormitorio) conteneva e professava l’idea cristiana della resurrezione dei corpi. Malgrado queste assicurazioni, provenienti dai sovrani borbonici, notoriamente religiosissimi ed ossequiosi verso la Chiesa, e l’assenza di ogni intento laicista, ci vollero molti decenni per superare l’avversione popolare; in diversi casi (capitò anche in Costa d’Amalfi), o si tardava la costruzione dei cimiteri, prendendo a pretesto penuria di mezzi e/o inidoneità dei siti, o, una volta realizzati, i cimiteri rimanevano vuoti e non utilizzati. Per ottenere la loro presenza diffusa e la loro piena operatività bisognò quindi attendere la fine del XIX secolo.

All’interno delle nostre chiese – nei sarcofagi o, più frequentemente, sotto i pavimenti, chiusi da pietre tombali ora ancora visibili ora ricoperti da marmi posti successivamente – riposano le ossa di tantissime persone, di tantissimi nostri antenati vissuti nei secoli addietro e anche di essi noi dobbiamo fare memoria, specie in occasione del 2 novembre. A volte è purtroppo capitato che, a causa di lavori fatti all’interno delle chiese, alcuni di quei resti siano stati tolti e portati altrove; se però non vi è una impellente necessità, è giusto che quei resti, quelle ossa rimangano nelle chiese, lì dove furono posti. L’umanità e la morale ci hanno insegnato che la volontà dei defunti va rispettata dai viventi, e la volontà di quei defunti era ed è chiara ed inequivocabile; come spesso è scritto nelle lapidi tombali, essi hanno desiderato e voluto riposare nelle chiese “donec expergiscantur a novissima tuba”, ossia sino a che quei corpi non saranno risvegliati, alla fine dei tempi, dal suono dell’ultima tromba.

redazione
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