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Amalfi

La tavola di Natale del Duca di Amalfi

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di GIUSEPPE GARGANO

Correva il Natale dell’anno del Signore 977, indizione VI secondo il calendario ciclico romanico-bizantino, XXI anno di governo del Dei gratia dux Mansone I e II anno del Dei providentia dux Giovanni I suo figlio. Tra i cinque livelli del Palatium Amalfitanum si diffondeva un intenso profumo di vivande, sintesi anch’esso, come l’arte del Romanico amalfitano, di commistioni alimentari campane, bizantine, arabe. Fervevano i preparativi al terraneo, dove erano adibite le cucine con i forni e le fornaci, fiancheggiate da dispense nei catodea e da buctaria, nei quali il vino giovane di S. Martino riposava in botti, in organea, in dolea, in serole, in una sequenza cronologica che andava dai recipienti di romana tradizione in terracotta agli altomedievali contenitori giunti dalla Gallia di legno e cerchi di ferro. Si davano da fare i cuochi per il sontuoso prandium di Natale allestito al terzo piano in un’aula magna riscaldata dal camino, la sala di rappresentanza di quel palazzo ducale, dove il duca amava ricevere ospiti illustri. Sedeva Mansone in posizione assolutamente centrale nel tratto orizzontale di quei tavoli disposti “a ferro di cavallo”; alla sua destra il correggente figlio Giovanni, alla sinistra la ducissa longobarda, figlia del conte Landolfo di Benevento. Intorno ai tavoli erano distribuiti i giudici, i curiali, l’erario, i consoli del mare, il conte di palazzo (che aveva fatto gli onori di casa ai convitati), i membri della stirpe ducale, fratelli e figli del duca. Un posto privilegiato era stato assegnato ad un ospite di riguardo: il geografo arabo Ibn Havqal, giunto da Bagdad per scrivere un saggio sul mondo allora conosciuto; musici orientali suonavano arie con liuti, flauti e tamburelli tanto cari alla “città dalle mille e una notte”. I famuli servivano le vivande portate dalle cucine attraverso una stretta e tortuosa scalinata in pietra; mentre i valletti stavano all’impiedi alle spalle dei convitati, reggendo vasi d’argento di produzione siriana colmi di acqua di rose e tenendo sul braccio sinistro candide tovaglie di lino, pronte per le abluzioni di rito.

Come avrebbe ben indicato la Scuola Medica Salernitana due secoli dopo, il pranzo cominciava con le focacce, realizzate mediante impasto di farina, acqua, sale, strutto e uova sode. Quindi era la volta della “minestra maritata”, con verdure bollite insieme al piede di porco salato prodotto a Scala. Poi il “piatto principe”, degno del basileus d’Oriente, come conferma Liutprando da Cremona: un grosso capretto di Agerola, cotto al forno con porri, cipolle, olio e colatura di Cetara. Un corposo vino rosso di Tramonti, servito in coppe d’argento, rallegrava il palato dei commensali. Ancora veniva servito cacio con cipolle unito al pane cotto in forma rotonda nelle pigelle di terracotta del forno ducale.

E giunse la seconda parte del pranzo: polpo grosso lessato con sale e cumino; pesci salati bolliti con vino bianco secco, marangoli e cinnamomo e affogati in una salsa verde composta da salvia, serpillo (timo), pepe, aglio, sale, prezzemolo pestati insieme, da cardamomo e piretro (menta greca), cinnamomo e moscato ciascuno tritato e aceto. Il tutto era di nuovo accompagnato da pane ben cotto.

La frutta secca, rappresentata da noci e castagne affumicate sulla graticola al fumo delle felci, apriva la strada ai dolci. Dal mondo arabo arrivavano gli zalabani, frittelle di pasta di pane non lievitata, con miele e mandorle; nonché il qataiif, fatto con frutta candita, farina e mandorle. Quindi compariva un dolce locale, i mostaccioli, a forma di rombo, così detti per l’impiego di mosto cotto (sapa) versato per l’impasto della farina, con l’inserimento di miele, spezie e frutta candita. Vino bianco medicato all’alloro o miscelato con miele e spezie serviva per “sciacquare il palato”.

Un brindisi sincero poté essere effettuato grazie al fiano greco del territorio stabiano, magari esclamando: «Vivere vis sanus? Graniani pocula bibe!».

Ci chiediamo se a quel tempo già fosse in uso concludere i lauti pranzi con il coffee, quel caffè prodotto da chicchi leggermente tostati, provenienti dall’Arabia e in particolare da Moka, che due secoli più tardi viene suggerito dalla Scuola Medica Salernitana come ottimo digestivo.

Ci chiediamo ancora se in una circostanza simile il dotto Ibn Havqal avesse pensato la sua descrizione di Amalfi: «E poi c’è Amalfi, la più prospera città di Longobardìa, la più nobile per le sue origini, la più illustre per la sue condizioni, la più ricca e opulenta. Il territorio amalfitano confina con quello di Napoli, che è città bella, ma meno importante di Amalfi».   

redazione
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